E’ stata la prima donna a guidare un’università sarda. E nel corso del suo mandato ha portato un’onda definita “rivoluzionaria”, mostrando attenzione non solo per l’universo femminile ma anche per i più deboli e, allo stesso tempo, rimarcando l’importanza dello studio e della formazione come strumento di crescita ed emancipazione. Alla fine del suo mandato la professoressa Maria Del Zompo, 69 anni, laurea in medicina e specializzazione in neurologia, oltre che professoressa ordinaria di farmacologia, con passato da ricercatrice tra Cagliari e atenei internazionali, traccia un bilancio della sua attività.
Possiamo dire che lei ha portato una certa aria di rivoluzione all’università di Cagliari. Da Gramsci, citato alla fine di ogni discorso di inaugurazione dell’anno accademico alle Stanze Rosa, sale dedicate alle studentesse con bimbi….
Iniziative che hanno successo se il terreno nel quale vengono seminate è pronto a raccoglierle. Non è tanto un discorso rivoluzionario, quanto l’aver voluto sdoganare certi argomenti e averli resi assolutamente consoni alla vita di un’università degli studi pubblica come la nostra. Sdoganarli vuol dire metterli allo stesso livello degli altri argomenti di cui l’Ateneo discute. In realtà abbiamo messo al centro la persona: anche se è semplice dirlo, non è facile farlo. Ci sono sempre tante pressioni e impedimenti. Io sono riuscita a farlo: mi auguro che il nostro Ateneo continui in questa direzione.
Che bilancio fa di questi anni?
E’ stato un lavoro duro, ma anche appassionante. Fatto con entusiasmo e dedizione, ho quasi dimenticato – e non c’era ancora la pandemia – cosa vuol dire uscire e andare al cinema. L’ho fatto con convinzione e non mi sono mai sentita sola: a parte il gruppo dei prorettori, encomiabili e senza i quali non avrei potuto realizzare molte cose, non mi sono mai sentita lasciata sola da parte degli organi di governo che hanno sempre condiviso la politica che volevamo portare avanti, ma anche dalla struttura, con il direttore generale, i dirigenti, il personale e gli studenti. Le cose belle, importanti, che fanno crescere, si fanno insieme. Poi certo, ci deve essere un motorino iniziale. Io mi sono sentita così, come un motorino iniziale: avrei potuto fare di più – questo è sempre vero – ma mi ritengo abbastanza soddisfatta di quello che siamo riusciti a fare.
Prima donna a guidare l’Università di Cagliari. Lei però vuole farsi chiamare rettore, come mai?
E’ una scelta ponderata fatta dall’inizio del mandato, perché si continua a dare valore al maschile e al femminile, invece non dev’essere così. Bisogna salvaguardare le istituzioni: il nome dell’istituzione è quello – rettore – e poi nella nostra società c’è anche qualcuno che non si riconosce nei due generi maschile e femminile.
Basta una lettera a “cambiare il mondo” o serve altro?
No, serve altro. Servono esempi di donne che hanno raggiunto livelli apicali nel mondo della cultura, della scienza, dell’economia, dell’imprenditoria. Per raggiungere questo livello dobbiamo essere in molte, dobbiamo crederci di più e non avere timore di confrontarci con il nostro “rivale” o “competitore” di genere maschile.
Oltre che rettrice (Il Sole 24 Ore usa la regola dell’Accademia della Crusca e concorda le cariche con il genere del soggetto, ndr) lei è una ricercatrice molto importante, a dimostrazione che la ricerca ma anche molti altri luoghi non sono solamente appannaggio degli uomini…
Sì, ma anche nel mondo della ricerca c’è il problema della parità di genere. Tante evidenze dimostrano come – a parità di qualità – è più facile per un ricercatore di genere maschile ottenere fondi per le proprie ricerche. Però è importante che a livello nazionale ed europeo ci sia stia ponendo il problema e si lavori per superarlo. Ci tengo a sottolineare che il lavoro sulla parità di genere non è solo legato al riconoscimento per il genere femminile di certe opportunità, ma serve a far cambiare mentalità ed essere più inclusivi. Di mancanze di parità ce ne sono tantissime: diverse tra loro dal punto di vista descrittivo, ma uguali dal punto di vista concettuale. Per questo la battaglia per la parità di genere è una battaglia per l’inclusione a vantaggio di tutta l’umanità.
Come vede il mondo dei giovani, anche alla luce della pandemia che sta cambiando e trasformando tutte le esistenze?
La domanda necessiterebbe di più tempo e di più spazio. Da una parte dobbiamo tutti sostenere il mondo della scuola e dell’università attraverso la vicinanza delle istituzioni agli studenti. Dobbiamo usare al meglio la tecnologia per far sentire loro la nostra prossimità. Dobbiamo essere un perno per loro e dirgli che il futuro c’è e ci sarà: non devono avere dubbi su questo. Il nostro è un compito non facile. D’altra parte, dico che i giovani sono molto più pronti di quanto immaginiamo, molto meno fragili di quanto pensiamo. C’è il terreno per far sì che loro non abbiano rebound troppo negativi nella crescita di conoscenza e competenza. E’ un terreno buono: se non agiamo bene, siamo colpevoli. Perciò dobbiamo metterci in gioco per farci sentire con la tecnologia più vicini a loro, in attesa che torni il momento dell’interazione fisica. La tecnologia non è un ostacolo, ma un mezzo appropriato che ci aiuta: sta a noi usarlo bene. E’ quello che l’Ateneo di Cagliari sta cercando di fare, anche attraverso i laboratori virtuali e gli homelab, per non far sentire soli gli studenti e non far subire loro troppo negativamente l’interruzione delle lezioni in presenza.
Cosa vede nel suo futuro?
Credo di riuscire ad essere ancora competitiva nel mondo della ricerca nel campo delle neuroscienze. E continuerò a portare avanti le iniziative legate alla divulgazione della scienza, del metodo scientifico, dell’importanza della ricerca per lo sviluppo e la crescita di un popolo.