Ganga Ma, Madre Gange, è il titolo della mostra fotografica di Giulio Di Sturco organizzata dalla Fondazione Stelline di Milano, visibile fino al 22 marzo, il cui protagonista è estremamente riduttivo definire semplicemente un fiume.
Il Gange è infatti la spina dorsale del subcontinente indiano: attorno al suo corso di 2.500 kilometri, dalle vette dell’Himalaya dove nasce al golfo del Bengala in cui sfocia in un vastissimo delta, immettendosi nell’Oceano Indiano, vivono quasi 500 milioni di persone, facendone una delle zone più densamente popolate del pianeta. Oltre a ciò, il Gange rappresenta per gli indiani qualcosa di difficilmente comprensibile per noi occidentali: la denominazione di fiume sacro va intesa infatti alla lettera, significa che, nella religione induista, è una vera divinità; il che spiega la ragione del culto che gli è riservato e di alcune famose (ma probabilmente incomprese), connesse consuetudini liturgiche, come il bagnarsi nelle sue acque, considerato gesto di purificazione e strada maestra verso la salvezza, e l’uso di disperdere in esse le ceneri dei defunti, una volta cremati, per propiziare l’ascesa delle loro anime al cielo.
Ma il Gange è oggi un malato grave, consumato da una lenta agonia di inquinamento sotto occhi ora impotenti ora indifferenti; occhi in ogni caso inconsapevoli di quanto, in uno dei saggi contenuti nel libro omonimo (edito da Gost Books nel 2019), dice la nota scrittrice e ambientalista indiana Vandana Shiva, tra le leader dell’International Forum on Globalization: Se Ganga vive, vive anche l’India. Se Ganga muore, muore anche l’India.
È solo tenendo presente questo contesto che possiamo percorrere la mostra, cercando di penetrare nei significati che ne possono sprigionare, se correttamente accostata. Dico correttamente accostata perché le immagini suadenti di Giulio di Sturco sono ingannevolmente semplici e un rischio che si potrebbe correre sarebbe quello di visitare la mostra con distratta fretta, ritrovandosi così, alla fine, perplessi e sottilmente a disagio, come se qualcosa ci sfuggisse, qualcosa di decisivo. Le foto in mostra a Palazzo delle Stelline esigono infatti uno sguardo attento e un indugio: solo in questo modo potremo penetrare la rarefatta bellezza e il delicato riserbo della loro confezione formale e riconoscere in esse la trama di un discorso che ci racconta un disastro ambientale in atto.
Il fotografo laziale, nativo di Roccasecca in provincia di Frosinone ma residente da tempo all’estero, tra Parigi e Londra, vincitore di numerosi e prestigiosi riconoscimenti, tra cui 3 World Press Photos, ha trascorso circa 5 anni in India, da dove ha compiuto numerosi viaggi attraverso Asia e Africa; un lungo periodo di vita e di lavoro che ha determinato anche una maturazione del suo linguaggio fotografico. Educato come reporter, Di Sturco ha progressivamente messo a fuoco un’esigenza diversa: non più lavorare contro il tempo, come i grandi fotoreporter del ‘900 alla Cartier Bresson, capaci di strappare alla realtà, con una sola, perfetta immagine, il suo segreto, cogliendo l’istante decisivo, ma attraverso il tempo, dedicandosi a progetti non appiattiti sulla notizia di cronaca o sull’avvenimento puntuale, bensì articolati sul lungo termine, che, passo dopo passo, attraverso indagini progressive, portano a una conoscenza lenta e approfondita della società e dell’ambiente nei quali prendono forma.
Proviamo a guardare il cavallo bianco usato per il trasporto dei fedeli lungo le rive del fiume a Varanasi, soffermiamoci sul terreno che denuncia chiaramente il progressivo, inesorabile insabbiamento delle acque: non ci sentiamo a disagio sotto lo sguardo fermo e indagatore di quell’animale, smagrito eppure fiero ed elegante, che sembra chiederci conto di quel che stiamo facendo al suo Gange?
E che dire di quel piccolo uomo solitario, armato solo di un tubo di gomma da cui esce un sottile getto d’acqua, ritto di fronte a un compatto muro bianco? Solo un’attenta osservazione ci fa capire che sta fronteggiando un enorme iceberg di schiuma, generata dagli scarichi delle fabbriche chimiche situate lungo il corso dello Yamuna, affluente del Gange: i tenui colori sabbia e terra chiara dei suoi abiti sembrano un disturbo passeggero dello sguardo, sul punto di essere inghiottiti da quella ingannevole massa di candidi veleni. Lo scatto rende con inquietante perentorietà lo strazio di quel compito titanico e vano.
La scelta conoscitiva ed estetica di Giulio Di Sturco lo porta a utilizzare un linguaggio pacato e poetico, non urlato, che sceglie di catturarci attraverso l’evocazione sottile e insinuante di un’atmosfera, di un sentimento, quasi un grido soffocato che il fiume stesso – riconosciuto nel 2017, beffardo paradosso, entità vivente dall’Alta Corte dello stato indiano dell’Uttarakhand – sembra alzare verso di noi. Gli orizzonti per lo più altissimi e i campi profondi dei suoi scatti richiamano la vastità dell’immenso fiume, di fronte al quale, in una luminosità faticosa, di ovatta, le rade presenze umane e animali sembrano piccoli insetti attorno a un corpo gigante ma esanime: un’aria malata e appiccicosa avvolge queste foto, incantevoli e mortifere, da cui possiamo quasi avvertire il greve peso degli odori, forse l’inanità degli sforzi.
Di Sturco appartiene a quella generazione di fotografi contemporanei che non identificano il proprio lavoro con la semplice applicazione di una qualità artistica e di una finalità espressiva alle immagini, ma lo concepiscono come processo intellettuale, paziente scavo attraverso un percorso di studio e ricerca, nel quale la sequenza finale delle immagini, anzi, le diverse, possibili sequenze di esse ne costituiscono il compimento comunicativo, la realizzazione formale e artistica. Una fotografia che si nutre dunque di indagine razionale, ma non si riduce a questo solo aspetto, perché continua a parlarci con le risorse immaginative e fantastiche dello stile, con la poesia appassionata della ragione.
Le sue foto ci raccontano, con asciutta eloquenza, il sacro Gange sottoposto a un avvelenamento e prosciugamento senza fine, mostrandoci le rive inquinate, le acque contaminate dai colori irriconoscibili, la portata sempre più scarsa, a tratti quasi paludosa, di numerosi tratti del suo corso, saccheggiato dalle industrie, dalle dighe e dalle reti idriche, che ne disperdono irreparabilmente il tesoro attraverso migliaia e migliaia di interruzioni, falle e impedimenti: questa catastrofe ecologica rappresenta per Di Sturco una metafora di come ci stiamo comportando nei confronti del pianeta su scala globale.
Ecco perché la foto scelta come immagine di comunicazione della mostra svela in filigrana, attraverso un rimando inconscio implicito nel nostro immaginario visivo, un’altra immagine, che la richiama e ne lascia trasparire il significato profondo: si tratta del celeberrimo quadro del pittore simbolista svizzero Arnold Böcklin, L’isola dei morti.
Già, se Ganga muore, muore anche l’India.