Alla fine, ieri il governo finlandese ha smentito: il primo ministro Sanna Marin non è ufficialmente al lavoro per introdurre nel Paese la settimana lavorativa corta di quattro giorni con una giornata lavorativa di sei ore. Pare che quella del neo premier finlandese non fosse un vero progetto di legge, ma solo un’idea buttata lì lo scorso agosto, durante una tavola rotonda in occasione del 120° anniversario del Partito socialdemocratico. Sapete che c’è? Meno male, perché a me questa idea della settimana lavorativa di quattro giorni, «per passare più tempo con la famiglia, per coltivare gli hobby e altri aspetti della vita come la cultura», per dirla alla Sanna Marin, non mi convince affatto. E vi spiego perché.
Un inaspettato giorno di ferie, preso all’improvviso, è un regalo del cielo. Si può spenderlo per il parrucchiere. Per quel massaggio che volevamo prenotare da tempo. Per finire il libro sul comodino. Per vedere una mostra, andare a vedere gli allenamenti di basket del bambino o bere l’aperitivo con un amico. Ma supponiamo che quel giorno di vacanza in più sia fisso, mettiamo tutti i venerdì. O tutti i lunedì. Cosa finiremmo col fare? I figli – per chi li ha – sono a scuola, impossibile fingere di organizzare qualcosa con loro. Con buona probabilità, diventerebbe un giorno di pulizie: oggi la cucina di fino, la settimana prossima la cassapanca dei panni da stirare. Che sia lui o sia lei a farlo, non è certo un giorno di cui andare fieri. E poi, prima di introdurre quel giorno libero in un determinato Paese, bisognerebbe accertarsi che la parità dei compiti sia stata effettivamente raggiunta, in quel determinato Paese. Perché ho come il sospetto che le donne finirebbero col fare le madri e le casalinghe un giorno in più, invece che le lavoratrici. E chi ha il compagno o la compagna lontana per lavoro? È un giorno in più per doversi far carico di tutto. Così come per chi è separato sarebbe un giorno in più da organizzare.
Poi c’è tutta la questione della produttività. È vero che in Svezia, dove la settimana corta è stata introdotta nel 2015, gli studi ci dicono che la produttività non solo non è diminuita, ma in alcuni casi è addirittura aumentata. Ma siamo sicuri che nessuno di noi non finirebbe col portarsi il lavoro a casa? Con l’aprire il computer la sera dopo cena, oppure con l’uscire dall’ufficio un’ora dopo per tutti e quattro gli altri giorni di lavoro, perché c’è una scadenza da rispettare o una consegna da onorare? Chiedetelo a chi fa il part-time, se davvero esce sempre esattamente all’ora in cui dovrebbe timbrare il cartellino per contratto.
Infine, oltre che pratica, credo che la questione sia anche filosofica. Cosa significa, l’obbiettivo di lavorare un giorno in meno? Che il sogno nostro più recondito è quello di non lavorare, di stare a casa? Io ho sempre pensato che il vero obiettivo fosse quello di aspirare a un lavoro che ci piaccia, non quello di non lavorare affatto. Che fosse giusto combattere per uno stipendio migliore e adeguato, non per il reddito di cittadinanza e tutti a casa.
Quindi no, grazie, Sanna Marin, io declino l’offerta. Preferisco combattere la battaglia del più lavoro per tutti, dei servizi sociali a sostegno dei genitori che lavorano, dell’adeguamento salariale. Dovessi anche avere la cucina meno pulita e il libro a giacere un giorno di più sul mio comodino.