Durante il mese di ottobre Lodi ospita il Festival della Fotografia Etica, che taglia quest’anno un traguardo importante, giungendo alla sua X edizione.
Questo è il quarto anno che ne parlo, da quando nel 2016 lo visitai la prima volta; in questo lasso di tempo ho potuto apprezzare la coerenza e il rigore che guidano le scelte del comitato organizzatore, il Gruppo Fotografico Progetto Immagine, che ha saputo garantire l’alta qualità dei lavori selezionati, prodotti da fotografi italiani e internazionali di riconosciuto valore, cui si affiancano giovani autori, e, elemento per certi aspetti ancor più importante, ha saputo al tempo stesso mantenere una riconoscibile identità delle proposte. L’aggettivo etico, così impegnativo, è e resta il perno della manifestazione che, a differenza di altri festival fotografici, si concentra esclusivamente sul fotogiornalismo: la protagonista è dunque la fotografia in quanto strumento di indagine, linguaggio espressivo al servizio della conoscenza, utilizzato per esplorare il mondo nel quale viviamo, portando luce sulle storie rimosse, le vicende nascoste, le persone e i popoli dimenticati.
Non ho dubbi se devo indicare la mostra che mi ha colpito di più, si tratta di Broken songlines di Monika Bulaj, allestita opportunamente all’interno dell’ex chiesa dell’Angelo. La fotografa polacca naturalizzata italiana racconta infatti le “terre dove per millenni le genti hanno condiviso i santi, i gesti, i simboli, i miti, i canti, gli dei. […] Le ultime oasi d’incontro tra fedi, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Luoghi dove gli dei parlano spesso la stessa lingua franca” . Le foto di Monika ci portano tra i santuari sufi, i mistici musulmani ferocemente odiati dai fondamentalisti, e ci fanno sdraiare sull’asfalto con un pellegrino cubano che riposa, al termine del suo cammino, accanto alla statua di San Lazzaro, protettore di lebbrosi, cani e poveri; ci introducono nella tenda dove una giovane mirasi (tribù di nomadi pakistani nelle cui famiglie convivono cristiani e musulmani) è intenta a filare, in un’immagine i cui colori prossimi a un dipinto a olio del ‘600 sembrano imbevuti nel crepuscolo, e ci mostrano giovani haitiani che si bagnano alla cascata della dea dell’amore, in un bianco e nero che fonde la sensualità pagana del rito in una luminosità di trascinante purezza. Sono foto di una qualità altissima: gli scatti a colori aderiscono alla pelle delle cose, alla creta dell’umano di cui ci fanno percepire il calore, quelli in bianco e nero invece, scultorei, dai forti contrasti di luce e buio, aprono squarci da cui la luce emerge vittoriosa, impregnata di materia e proprio per questo colma di spirito. “Il corpo come un tempio”, trafitto dal sacro dice splendidamente la Bulaj: il sacro agisce come lievito nelle sue immagini, ne è la radice e la meta; dona loro un’apertura verso altro.
Dicevo prima dell’insostituibile lavoro del fotogiornalismo nel mostrare vicende dimenticate: è il caso del bellissimo reportage della fotografa americana dell’agenzia francese VU’ Darcy Padilla, Dreamers, dedicato al piccolo villaggio di nativi americani Whiteclay, nella riserva indiana di Pine Ridge nel South Dakota. Siamo in uno dei luoghi più poveri degli Stati Uniti, con la seconda aspettativa di vita più bassa dell’emisfero occidentale (47 anni per gli uomini, 52 per le donne); un ruolo non secondario in questa drammatica situazione è svolto dall’abuso di alcool – il cui consumo è illegale nella riserva – e dal consumo di metanfetamine. Darcy Padilla racconta con le sue immagini dirette e potenti questa desolata realtà e la coraggiosa azione di una rete di donne attiviste, che combattono queste piaghe, nel tentativo di salvare i giovani Oglala Lakota; ma la fotografa fa anche emergere la storia lungamente rimossa di Wounded Knee, uno degli ultimi scontri a fuoco fra esercito americano e nativi nel 1890, un massacro nel quale morirono 300 indiani tra uomini, donne e bambini, che ancora pesa come un macigno sulle vicende del presente.
Sempre nell’elegante cornice di Palazzo Barni, a due passi da piazza della Vittoria, dev’essere ricordato il lavoro del fotografo indiano Senthil Kumaran, Confini: il conflitto tra esseri umani e tigri, che documenta lo scontro drammatico tra i grandi felini e le comunità locali che vivono nelle vicinanze dei cosiddetti santuari della fauna selvatica, nei quali sono ospitati circa 2300 dei 4000 ultimi esemplari di tigri selvatiche al mondo. Kumaran racconta con un bianco e nero elegante e preciso, che si fa via via incalzante e suggestivo, inseguendo le tracce delle tigri con foto trappole notturne, mostrandoci le loro impronte, il bestiame ucciso, gli uomini aggrediti, fino all’incontro con gli animali: sedati, catturati, purtroppo talvolta uccisi.
Uno dei lavori più potenti del festival, ancora a Palazzo Barni, è Vivere con un dollaro al giorno, un teso reportage sociale condotto dall’americana Renée C. Byer per conto dell’associazione no-profit “Positive Change Can Happen” in 10 paesi e 4 continenti. La Byer ci coinvolge attraverso immagini fortemente dinamiche e magistralmente illuminate, capaci di cogliere i sentimenti delle persone che incontra, mostrandoci il dolore ma anche la tenerezza, con l’obiettivo – pienamente raggiunto – di scuoterci dal nostro torpore e di farci vibrare a contatto con le emozioni di questi uomini, donne e bambini che ci stanno di fronte, uguali a noi, un po’ meno fortunati.
Nello spazio della Cavallerizza è collocato il lavoro Ferite. La guerra a casa del reporter napoletano Giulio Piscitelli per Emergency, sugli ospedali dell’associazione in Afghanistan. Inconsueta e di impatto la scelta di accostare in grandi dittici una foto della persona ferita (tutti civili, spesso colpiti per puro caso…) nel letto di ospedale, con accanto una natura morta dell’arma che l’ha colpita: le pallottole, schegge, frammenti di bombe o granate presentate su uno sfondo neutro si rimpiccioliscono, assumono un’aria quasi innocua, rappresentando l’anonima, meccanica serializzazione di una violenza che perdura da decenni.
Sono dedicate all’Italia le storie ospitate invece a Palazzo Modignani, al cui primo piano (per la prima volta aperto) è allestita una piccola e intensa mostra della grande Letizia Battaglia, di cui si espongono alcune memorabili foto di mafia, che contribuirono in modo determinante a far sì che l’opinione pubblica aprisse gli occhi: invade spesso queste immagini il sangue che bagnava le strade di Palermo, guardato con un’indignata pietà, nella quale convivono l’amore per la propria terra e la rabbia verso i responsabili della mattanza e i conniventi.
A pian terreno, tra i vari servizi, tre si staccano nettamente e meritano di essere raccontati. Innanzi tutto lo splendido reportage di Mariano Silletti su Serra Maggiore, “uno dei borghi rurali costruiti a seguito della Riforma Agraria degli anni ’50 nelle campagne di Montescaglioso, in Basilicata”, oggi quasi abbandonato: vi resistono, delle cento famiglie degli anni ’50, circa sei. Le foto di Silletti, dai colori terra e canapa e la luminosità tenue, indugiano sul vasto, splendido paesaggio lucano, silenziose, malinconiche, colme di una dimessa poesia georgica che costituisce la cifra profonda di questo storytelling attento e sensibile nel recuperare una storia dimenticata.
Mare mostrum del laziale Marco Valle è un accurato lavoro fotogiornalistico sullo stato delle coste italiane, sottoposte all’incessante pressione della cementificazione, degli insediamenti turistici e industriali e del dilagante inquinamento. Valle racconta con immagini dettagliate di elegante eloquenza l’assedio cui stiamo sottoponendo questo prezioso e fragile ecosistema, che rappresenta anche una quota considerevole di ricchezza per il nostro paese.
La terra dei fuochi è al centro dell’impressionante reportage Epidemia di Massimo Berruti: le sue foto dal bianco e nero offuscato e denso, colme di fumi e vapori, nelle quali la luce sembra spesso sul punto di svanire, insinuano sotto pelle un senso di disagio, raccontandoci il calvario delle persone che vivono oggi in quest’area, compresa tra Napoli e la provincia di Caserta, dove migliaia di discariche e tonnellate di rifiuti tossici e radioattivi seppelliti dalla camorra stanno avvelenando la terra, con effetti devastanti sulla salute di chi vi abita.
Nello spazio Bipielle sono raccolti una serie di servizi legati all’attualità internazionale: i fotografi della celebre agenzia AFP (Agence France Presse) raccontano le proteste dei gilets jaunes francesi, Marco Zorzanello presenta un accurato reportage su Il turismo nell’epoca del cambiamento climatico, Joey Lawrence ci fa conoscere le donne combattenti del Kurdistan (Guerrilla Fighters of Kurdistan), con una serie di ritratti capaci di lacerare d’un colpo tutti gli stereotipi, positivi e negativi, su queste giovani ragazze, che hanno deciso di imbracciare il fucile e salire a combattere sulle montagne per difendere la loro terra. Infine, i messicani Guillermo Arias e Pedro Pardo, entrambi di AFP, ci mostrano, con immagini potenti, le Carovane con le quali i migranti centroamericani cercano di arrivare negli Stati Uniti, muovendosi in grandi convogli che esercitano un’importante funzione protettiva sulle persone, mentre l’olandese Nick Hannes ricorre all’ironia nelle pungenti immagini di Garden of Delight, reportage che racconta gli eccessi e le ostentazioni di Dubai, “il più grande parco giochi per la globalizzazione e il capitalismo senza limiti o etica”, riattualizzando la metafora del giardino delle delizie del grande Bosch.
Niente di nuovo sotto il sole d’Arabia?