Non sono sicura che si usi ancora chiedere ai bambini che cosa vogliono fare da grandi, ma immagino di sì. D’altronde è una domanda buona per tutte le occasioni, il classico rompi-ghiaccio quando ci si trova davanti a uno scolaro delle elementari e non si sa bene di cosa parlare. Domandarlo, invece, a un liceale potrebbe comportare qualche rischio: potrebbe non essere d’accordo né con la prima parte della frase (il voler fare qualcosa) né con la seconda (il dover ancora “diventare grande”).
Lo psicologo e scrittore Adam Grant ha di recente lanciato sul New York Times un dibattito proprio sulla “normalità” di questa vecchia domanda: che effetto fa ai bambini sentirsi domandare che lavoro vogliono fare da grandi?
Secondo Grant, si tratta di una domanda che chiude inesorabilmente gli orizzonti della loro immaginazione.
Come? In almeno tre modi:
1) Primo: obbliga i bambini a pensarsi solo in termini del loro ruolo lavorativo, come se da questo dipendesse interamente l’espressione del loro valore. E’ una domanda che non lascia spazio a risposte più ampie, come per esempio “voglio essere una persona onesta” oppure “un bravo genitore”.
Sarebbe interessante ascoltare più esperienze dirette. Nel mio caso, per esempio, questo effetto di limitazione aspirazionale non l’ho visto: la mia primogenita vuole fare la gelataia e il mio secondogenito l’inventore di trucchi per comici.
2) Secondo: questa domanda sembra implicare che tutti abbiamo qualche talento che ci chiama ad essere utilizzato, lo psicologo lo chiama “calling”. E dovrebbe essere il calling a dire ai bambini qual è il mestiere scritto nel loro futuro. Ma quante volte succede davvero che un talento si trasformi in una professione? Quando nelle scuole echeggia la frase “potrai essere tutto quello che vuoi”, secondo il comico Chris Rock qualcuno dovrebbe aggiungere “se stanno assumendo in quel ruolo”.
3) Terzo, per chi ha ancora l’energia di obiettare che si tratta tutto sommato di una domanda innocente: se i bambini hanno delle aspirazioni, finiranno quasi certamente frustrate dalla vita. Fortunati quindi quelli che crescono in tempi di recessione, la cui unica aspirazione è portare a casa la pagnotta: vivranno una vita molto più soddisfacente di chi ha avuto inutili sogni di gloria.
Al limite si potrebbe invece chiedere, conclude l’autore, “che problema del mondo vorresti risolvere?”, rassicurandoli così sul destino che li aspetta: risolvere i numerosi problemi lasciati dai grandi.
In conclusione, la prossima volta che dovrete intrattenere un bambino per cinque minuti, per evitare di innescare una serie infinita di frustrazioni e false aspirazioni, il suggerimento è di parlare di gusti di gelato e videogiochi – chissà se poi si chiamano ancora così.