Cascare dalla sedia ogni volta che un “evento della vita” irrompe nella dimensione lavorativa. Considerare ogni assenza una crisi, da cui rientrare è sempre difficile. Guardare l’orologio per decidere se il lavoratore è “serio”: se il suo tempo appartiene interamente all’azienda. Sono prassi del secolo scorso: la fotografia di una realtà che non c’è più.
Oggi, secondo una recente ricerca di Harvard, negli Stati Uniti il 73% dei lavoratori sono anche “caregiver”: ovvero prestatori di cura in ambito privato. Madri, ma non solo: padri, figli, fratelli, amici.
Persone che hanno responsabilità di cura per altre persone: a tratti più intense, a tratti meno, ma quotidiane, anche solo nel pensiero. Le relazioni, la vita in tutte le sue forme, sono entrate nel mondo del lavoro. Ma non sono ancora stati mappati, e la foto che stiamo guardando è quella di un mondo che non c’è più. Il problema sempre più evidente è che a quella foto obsoleta adattiamo nelle aziende anche regole e comportamenti, ed è ancora così: l’assenza come crisi, l’orologio come strumento di valutazione, la vita come “anomalia”.
La conseguenza di questi comportamenti obsoleti sono costi altissimi, in parte chiari e in parte occulti. Quelli chiari sono i costi in termini di stress (chi dice 300, chi 500 miliardi di euro all’anno nel mondo), di produttività piatta o in declino nonostante la disponibilità di tecnologie sempre più avanzate, di sostituzione di persone che lasciano il lavoro – temporaneamente o per sempre – perché “non ce la fanno” a tenere il doppio ruolo. Quelli occulti citati dalla ricerca di Harvard sono i costi di perdita di talenti e di produttività per il semplice fatto che si fa finta di ignorare il ciclo di vita delle proprie persone – o lo si ignora davvero?
La volontà di ignorare il ciclo di vita delle persone di questo millennio è l’unica spiegazione possibile al modo in cui non stiamo facendo evolvere il nostro approccio al lavoro, assorbendo di conseguenza i costi di una volontaria ignoranza. I dati della ricerca di Harvard sono chiari (e noti anche da noi):
1) Sempre più famiglie sono “diverse”: le coppie sposate diminuiscono, mentre aumentano i nuclei con un solo familiare o con gruppi famigliari misti, per esempio più generazioni insieme.
2) La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è sempre più essenziale alla sopravvivenza dell’intero sistema economico, e “negli Stati Uniti, buona parte della forza lavoro femminile altamente educata afferma di aver dovuto uscire dal mondo del lavoro o ridefinire il proprio apporto lavorativo a causa di responsabilità di cura”
3) Nel 2013, il 47% degli Americani di mezza età erano in una situazione cosiddetta “sandwich”: presi tra la cura dei propri figli e quella dei propri genitori. Intensi bisogni di supporto non solo di cura e finanziario, ma anche emotivo.
Al tempo stesso, l’Industria 4.0 ha acceso sempre più la guerra per la conquista dei talenti: come attrarre i più bravi, come trattenerli? Ma la funzione che in azienda si occupa del benessere delle persone non sempre è la stessa che investe sull’attrazione dei talenti. Da una parte uno sguardo spesso poco aggiornato su quel che i lavoratori sono diventati: le loro vite sempre più complesse e multi-dimensionali, i loro bisogni non solo pratici ma anche umani. Dall’altra la continua ricerca di strumenti per attrarre lavoratori di cui si vede e si riconosce solo la dimensione professionale, come se vivessero in un vuoto.
Si finisce con l’acquistare decine di benefit di cui spesso i lavoratori non sono a conoscenza e che non spostano l’ago delle loro preferenze, mentre si continua a (far finta di) ignorarli nelle loro dimensioni reali di vita: quelle di oggi ma anche e soprattutto quelle che saranno. Le assenze che arriveranno sempre inaspettate, i carichi di cura che verranno trattati come estranei al sistema, da disinnescare e contenere, i ritardi (o gli anticipi) che verranno letti come scarsa motivazione e peseranno sulle decisioni di carriera. Oggi ancora, come nel secolo scorso.
Quanto a lungo può sopravvivere un’azienda che agisce basandosi sulla mappa di una realtà che non esiste più? Secondo i professori Fuller e Raman, che guidano il progetto “Managing the future of work” ad Harvard:
“Per le aziende che sapranno prendersi cura e riconoscere le dimensioni della cura delle proprie persone, il ritorno andrà bel oltre l’ingaggio dei dipendenti. Avrà il potenziale di costituire un’importante fonte di vantaggio competitivo”.
E non si tratta solo di mettere a disposizione una serie di servizi utili: è importante ma non basta. Si tratta di cambiare proprio lo sguardo e la cultura, e rendere la dimensione della vita apertamente presente nel disegno del ciclo lavorativo. Tappe di vita previste e prevedibili disegnate insieme a tappe di carriera. Abbracciate, come lo sono già nella vita di tutti noi da moltissimo tempo ormai.