A caccia di nuovi modelli di leadership. Parte da qui la ricerca curata da Eurosearch Consultants in partnership con Intesa Sanpaolo. Il punto di partenza dell’indagine qualitativa, realizzata con la supervisione scientifica di Chiara Ghislieri, docente del dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, è amaro: “Al 22 gennaio 2019, il ruolo di amministratore delegato delle 40 aziende italiane che compongono il FTSE MIB è ricoperto da 39 uomini e 1 donna“.
La ricerca si costruisce attraverso le interviste a 60 top manager e 30 middle manager, rigorosamente per metà uomini e per metà donne, in rappresentanza di settori diversi. “Il percorso di crescita verticale delle donne nelle organizzazioni è ancora sfidante” dice Patrizia Ghiazza, partner di Eurosearch, tra le sette professioniste torinesi ad aver animato le piazze “Si Tav” degli ultimi mesi. “Sfidante” dice Patrizia Ghiazza, che vuol dire difficile.
Dall’analisi di Chiara Ghislieri, la situazione appare abbastanza definita. A cominciare da un punto: “Il percorso di crescita verticale delle donne nelle organizzazioni ha come principali ostacoli i pregiudizi di genere, riportati sia dalle donne che dagli uomini. Questo ostacola le possibilità di carriera. E anche laddove esistono soluzioni a favore della conciliazione e misure di parità, le organizzazioni spesso non riescono a mettere in pratica gli obiettivi di equità di genere che vogliono perseguire“.
Dalla rilevazione emerge che se da un lato ci sono meccanismi di esclusione delle donne dal top management come ad esempio una serie di regole del gioco su misura per gli uomini o uno scarso supporto conciliazione, dall’altro però non mancano situazioni nelle quali il mancato accesso alle posizioni apicali è attribuito a una sorta di “autolimitazione delle donne al lavoro“, vissuta quasi come un fattore naturale, legato alla maternità, al desiderio di cura, alla “capacità” di accontentarsi dei risultati.
Qui sta il vero intoppo di sistema, allora. L’interpretazione quasi “biologica” delle differenze di genere al lavoro è espressa da un campione composto da persone che hanno fatto carriere internazionali e che evidenziano nelle interviste quanto diversa sia la situazione in altri paesi dell’Europa. Eppure, i fattori culturali che penalizzano le donne pesano, eccome. “Si tratta di una serie di condizionamenti – spiega Patrizia Ghiazza – emersi durante le interviste, questo perché in fase di verbalizzazione le contraddizioni emergono più facilmente e rappresentano un po’ lo zoccolo duro della nostra cultura“.
Ma alla fine cosa è che davvero non funziona? Cosa pesa a sfavore delle carriere femminili in azienda? La risposta è: l’organizzazione del lavoro in salsa italiana. Tra le persone intervistate, in tanti mettono in luce come le culture organizzative e le pratiche di lavoro, in Italia, siano ancora pensate prevalentemente per uomini che non hanno compiti di conciliazione. Chi fa carriera “non guarda mai l’orologio“, tende a non separare la vita lavorativa da quella privata, è disposto a fare rinunce personali. Per questa ragione, le soluzioni formali pro-conciliazione non sono sufficienti per rompere il soffitto di cristallo nelle aziende e rischiano di rimanere sulla carta o di ridursi a semplici “contentini”.
“Il tema centrale è il Work-life balance” focalizza Patrizia Ghiazza. “La donna alla fine non vuole essere presenzialista, non vuole stare tutta la giornata al lavoro, le donne sono meno disposte degli uomini a pagare questo prezzo, anche a costo di fare un passo indietro nella propria carriera“. Dobbiamo dunque arrenderci? “Assolutamente no, noi consideriamo questo aspetto un gap negativo per la società italiana, per gli stessi uomini e per le aziende intese come organizzazioni complesse, un ostacolo da superare” aggiunge Ghiazza.
Di buono c’è che il tema dell’equilibrio tra vita privata e vita lavorativa comincia a farsi strada anche tra gli uomini, il “diritto alla disconnessione” diventa una esigenza sempre più condivisa. Il benessere organizzato probabilmente aumenterebbe nelle aziende se ci fossero più capi donna, capaci di incarnare nei modelli di leadership valori life e family friendly.
Sul tema della leadership, in linea generale, l’indagine indica una serie di misure pratiche che le aziende possono mettere in campo per aumentare la rappresentanza femminile ai vertici, a cominciare dalla promozione di percorsi di coaching e mentoring destinati alle donne per promuovere percorsi di carriera consapevoli e condivisi. Con un suggerimento molto suggestivo, per passare da una visione della carriera come “scala” – Considera un solo possibile percorso verso l’alto (gerarchia tradizionale); Pone sempre il lavoro al primo posto; Si adatta alla struttura familiare più tradizionale e presuppone che le esigenze dei lavoratori rimangano coerenti nel tempo – a un modello che propone la carriera come “reticolo”: Tiene conto dell’evoluzione dei bisogni degli individui nel tempo di vita; Prevede forme diverse di percorsi di crescita e considera anche movimenti trasversali, accelerazioni e rallentamenti.