“In principio era l’immagine. Se il mondo cominciasse oggi, non esisterebbe descrizione più corretta. […] quale effetto avrà su di noi, sui nostri figli, come modificherà ciò che intendiamo per “memoria di noi”? Una colata d’immagini si spande sulle nostre giornate. Sono diventate l’alfabeto universale, il battito del tempo quotidiano, un’estensione luminosa di ogni evento, emozione, desiderio.”
Da questa constatazione si avvia il discorso di Michele Neri in Photo Generation un saggio agile e prezioso, capace di toccare, con stile brillante e intelligenza vivace, snodi e questioni cruciali gravitanti attorno a quel che le immagini oggi rappresentano nella nostra società, evitando le scorciatoie della banalità e la fumosità di tanta saggistica un tanto al chilo.
Direttore per tanti anni di una delle più importanti agenzie fotografiche internazionali, la Grazia Neri (fondata dalla madre Grazia negli anni ’60), l’autore ha avuto il privilegio di lavorare con fotografi e fotoreporter, dagli onesti professionisti alle grandi star del reportage internazionale come Salgado, Nachtwey, la Leibovitz, scoprendo le ragioni e ispirazioni ideali dei loro progetti; ed è proprio da questa esperienza fondamentale che si dirama la pars costruens del suo discorso.
Ma prima di toccare l’interessante proposta avanzata nel saggio, occorre dare il giusto rilievo all’ampia analisi della situazione attuale, nella quale Michele Neri intreccia fatti di cronaca, avvenimenti d’attualità, l’osservazione attenta dei social media (da Instagram a Facebook), che danno la temperatura emotiva della nostra società, con lavori fotografici di ricerca, progetti artistici, studi sociologici e di psicologia: grazie a questo metodo una serie di controversi comportamenti quotidiani, particolarmente della giovane generazione, vengono collocati in un contesto che ci fa accostare al loro significato più profondo, dalla diffusa pratica del sexting digitale all’ossessione per i selfie, dall’onnipresenza dello smartphone al ruolo che le fotografie si stanno ritagliando come modelli di comportamento cui ci sentiamo chiamati, per lo più inconsciamente, a uniformarci.
Nella trama del suo discorso emergono domande delicate, che pretendono ascolto: tutto dev’essere obbligatoriamente visto e conosciuto? Non esiste più quello spazio faticosamente conquistato chiamato privacy, cui pare che volontariamente stiamo abdicando? Chi ha diritto di decidere il destino delle foto caricate sui profili social, quando il titolare del profilo viene a mancare? Siamo davvero sempre consapevoli di tutte le conseguenze che derivano e possono derivare dalla nostra presenza sui social? Quest’ultima domanda è oggi ancora più attuale, se è divenuto un bestseller tradotto in vari paesi il libro dell’informatico americano e pioniere della realtà virtuale Jaron Lanier Ten Arguments for Deleting Your Social Media Accounts Right Now.
Un’altra questione capitale su cui Neri non manca di soffermarsi è quella, ineludibile, della verità della fotografia, visto che oggi, in tempo di fake news, si sta attuando un paradossale capovolgimento che porta piuttosto a “ritenere che nelle immagini che sfilano davanti agli occhi sia insito un principio di falsità […] soprattutto tra i più giovani.” (p. 69)
Sulla più giovane generazione, quella dei nativi digitali, Neri ci aiuta a comprendere diverse cose, per esempio quando così descrive la loro simbiosi con lo smartphone: “Quando s’incontra un adolescente, occorre ricordare che c’è una parte a lui nota, e invisibile agli altri, che lo accompagna quasi 24 ore al giorno, aiutandolo o meno a trovare la propria identità. È probabilmente chiusa in un oggetto dentro la tasca.” (p. 38); oppure quando evoca per loro il concetto di “tecno-subconscio”, perché “la tecnologia di cui dispongono i ragazzi non è meno intima di un attributo fisico” (p. 47).
Ma attenzione a non cadere in un inganno: la photo generation del titolo non è affatto la sola generazione Z, si estende a tutti noi, noi che abbiamo un qualunque social, che fotografiamo un piatto al ristorante (o a casa) per condividerlo, che indugiamo in un selfie; perfino noi che, inconsapevoli e innocenti, ci troviamo dentro immagini scattate da altri per un qualsiasi, e a noi ignoto, scopo. L’iconosfera ci comprende tutti, non facciamoci illusioni.
In questa situazione fluida e complessa – ecco il suggerimento di Michele Neri – “toccherebbe […] ai fotografi giornalisti” di fare da guida, perché sono loro gli eredi di un mestiere che “per generazioni ha coltivato un’etica e una curiosità sociale, intellettuale, umana” (p. 57) e hanno vissuto sulla propria pelle, affrontato e sovente risolto numerosi di quei nodi nei quali noi oggi ci sentiamo impigliati. Sulle strade dell’immagine forse non siamo soli…