Quando si vive in Silicon Valley si ha sempre l’impressione di vivere nel futuro rispetto all’Italia. Quello che si sviluppa in Silicon Valley generalmente arriva in Italia con qualche anno di ritardo. Non sempre con gli stessi immediati impatti positivi di mercato (penso a Tesla, lanciata in Italia in assenza di una copertura di charger adeguata). Con un sano livello di generalizzazione, si può però dire che questo è il trend, quantomeno per quanto riguarda l’high tech.
In settori come il food e la moda, l’Italia è invece sempre stata all’avanguardia rispetto alla Silicon Valley. Si mangia meglio in Italia. Ci si veste meglio in Italia. Si producono cibi e vestiti di migliore qualità in Italia.
Negli Stati Uniti si è sviluppato il fast food, diventato sinonimo di “mangiare male”. In Italia si è sviluppato lo slow food, sinonimo di mangiare sano e bene, che la Silicon Valley ha tradotto in “locally grown”, trasformando I farmer markets in luoghi di shopping alimentare riservati ai molto abbienti, lasciando i meno abbienti nutrirsi di fast food ad aumentare le statistiche dell’obesità, diffusa piaga sociale Americana.
Da qualche anno è arrivato, però, l’impossible food, che in Silicon Valley ha ormai raggiunto lo status di trend setter. Se non hai l’impossible hamburger, o l’impossible lasagna sul menu, non sei un posto consigliato dove andare a wine&dine. Quanto meno per i top venture capitalist, come Vinod Khosla o Marc Andreessen. Cosa ha conquistato il gusto di questi re mida dell’high tech? Non esattamente una questione di “gusto”, quanto una questione di impatto ecologico.
In base alle ricerche pubblicate negli ultimi anni, l’agricoltura legata all’allevamento degli animali usa il 30% del terreno e il 25% dell’acqua disposibile sul pianeta. Non solo, a questa attività è legata molta parte delle generazione dei gas di emissione cha hanno creato e continuano ad allargare il buco nell’ozono.
La startup Impossible Foods, fondata nel 2011 dal professore di Stanford Patrick Brown, ha come missione quello di “rendere possibile l’impossibile”: produrre quello che loro definiscono lab-grown meat ovvero plant-based meat e diary (carne e latticini formati di sole piante). Con investimenti che hanno ormai superato i 270 milioni di dollari, sviluppano nei loro laboratori carne (o meglio quello cha ha il sapore di carne) da piante, in particolare dalle proteine estratte dalle patate, grano e soia, e dal grasso estratto dal cocco. La startup Impossible Foods ha speso sei anni in ricerca per capire come la carne reagisce alla cottura a livello molecolare e come si arriva al sapore che tanto piace a chi ama l’hamburger o la classica steak Americana. Dopo sei anni di ricerca, è stato lanciato sul mercato il loro primo prodotto: l’impossible burger.
Se quest’estate avete pianificato una vacanza a San Francisco e volete mangiare come i venture capitalists della Silicon Valley, potete provare anche voi l’impossibile burger…ma se non volete rischiare troppo, potete ordinarlo da Vina Enoteca, proprio sul campus di Stanford dove l’idea dell’impossible foods è nata. Vina Enoteca è stato il primo ristorante a servire l’impossible burger ed è ancora il solo ristorante italiano della zona che può servire un ottimo piatto di pasta in caso abbiate gusti diversi da Vinod Khosla.