I primi decenni del 21esimo secolo si stanno caratterizzando per una forte ridiscussione e riassegnazione culturale dei generi maschile/femminile, soprattutto nella cultura occidentale e tra le nuove generazioni. L’ennesimo segnale in questo senso arriva proprio dai nomi.
Che esistano dei nomi di persona usati sia per i maschi che per le femmine – i cosiddetti gender neutral – è cosa nota da sempre, soprattutto nelle lingue germaniche più diffuse – inglese e tedesco – che conservano al loro interno il genere grammaticale neutro. Non c’è dunque da sorprendersi che ci siano genitori che scelgano questi nomi per i propri figli come sempre è accaduto. Il dato nuovo però, riguarda l’incidenza con cui questa scelta accade, e il tipo di nome che viene scelto, eletto – sarebbe meglio dire – come gender neutral.
Il sito di notizie Quartz ha condotto una ricerca sulla tendenza dei nomi usati per i bambini statunitensi negli ultimi cento anni. Quello che ha scoperto è che mentre nel 1910 appena il 5% dei bambini americani di nome “Charlie” erano ragazze, più di 100 anni dopo, nel 2016, le ragazze “Charlie” hanno superato i loro omonimi maschi, raggiungendo il 51% del totale. Dunque, in modo silenzioso e senza clamore, Charlie si è trasformato a tutti gli effetti in un gender neutral.
E il fenomeno non riguarda un solo nome, ma è generale. Secondo lo studio condotto dal sito names.org – che dal 1998 si occupa di monitorare significato e diffusione dei nomi usati negli USA – la percentuale di bambini con un nome gender neutral è passata dal 3,1% del 1880 al 15,4% del 2016. I dieci nomi no gender più diffusi sono: Willie, Kelly, Terry, Jordan, Taylor, Alexis, Leslie, Jamie, Shannon e Shawn. Ma che il futuro dei nomi sia gender fluid è mostrato non solo da quelli che diventano no gender, ma anche da quelli che fanno proprio un salto di genere. E’ il caso per esempio di Harper: solo maschile fino ai primi anni 70, adesso è quasi esclusivamente usato per le ragazze (più del 97%).
Anche in Inghilterra si conferma la stessa tendenza. il marketplace online OnBuy.com ha intervistato 1.466 futuri genitori inglesi e ha chiesto loro cosa ne pensassero dei nomi: Il 45% ha risposto che avrebbe scelto un nome gender neutral.
La sensazione è che, seppure all’inizio, la nascente attenzione a lasciare l’identità di genere libera di definirsi a prescindere dalla biologia e dai ruoli culturali, si stia riflettendo anche nelle nuove generazioni di genitori. Ma questo passaggio in alcune nazioni potrebbe non essere così facile. Un esempio? L’Italia.
Nel nostro Paese i nomi gender neutral sono praticamente una rarità – sono più diffusi i nomi composti come Carlo-Maria ad esempio – e questo per più ragioni. Come tutte le lingue romanze, l’italiano non conosce il genere neutro, in più dal punto di vista fonetico-grammaticale, nella nostra lingua la quasi totalità dei nomi che finiscono con la “a” sono femminili, e maschili quelli che finiscono con la “o”. Dunque rispetto ad altre lingue, il genere è più immediatamente identificato, e questo rende più difficile la possibilità che un nome possa diventare all’orecchio di chi lo usa gender neutral.
Un altro ostacolo a questa “fluidificazione” dei nomi proviene invece dalla legge. Le norme riguardo l’assegnazione di un nome pongono dei paletti precisi, e uno di questi riguarda il divieto esplicito di assegnare un nome maschile ad una bambina e viceversa. L’uso di nomi sessualmente neutri è possibile solo per quelli che all’estero abbiano già tale valenza, risultato ottenuto grazie ad una sentenza della cassazione che nel 2012, lo stabilì riguardo il caso di una bambina che fu chiamata Andrea dai genitori.
Molto ci sarebbe da ragionare foucaultianamente su cosa si annidi in una società che barrica le differenze di genere in modo così rigido sotto ogni punto di vista, perfino legislativo. Genericamente possiamo sicuramente dire che apparteniamo a quelle culture che più di altre si difendono dai cambiamenti sociali. Difficile quindi con tali vincoli – fonetici, grammaticali e legislativi – che al nome Carlo possa capitare nell’immediato di essere mano a mano usato anche per delle femmine. Ma se c’è una cosa che si impara studiando grammatica e linguistica, è che le parole sono vive. Non sono dei monoliti piantati nella terra, ma vivono della vita che gli uomini danno loro. E la vita di questi nuovi uomini sta cambiando, quindi, anche le parole, prima o poi ne dovranno prendere atto. Che poi, in fondo, a pensarci basta poco per staccarsi dalle convenzioni. Basta provare a chiudere gli occhi, e pronunciare il nome Francesco ad esempio. Ma pronunciarlo fino a “Francesc…” e poi, quando si arriva alla “o”, provare a non chiudere la mente con un colore, con un genere, e farlo esplodere con un suono che diventi di tutti. Lasciarlo libero. E chissà, che lasciando libere le parole, non si cominci anche a lasciare libere le persone.