Sono una bella cifra, 4.500 miliardi di dollari. Sono più di tutto il Pil della quarta economia mondiale, quella tedesca. Sono, diciamo, la somma del Pil della Germania e di quello dell’Austria. Ebbene: di tanto potrebbe aumentare l’economia dell’Asia, se solo si facesse fare alle donne che la abitano un percorso verso la parità.
Le pari opportunità pagano sempre, economicamente, Alley Oop lo ha scritto tante volte. Ancora di più e più velocemente se le si portano in un continente immenso e che sta correndo a velocità della luce. I calcoli arrivano dal McKinsey Global Institute, che ha quantificato la ricchezza aggiunta raggiungibile nel 2025 se in Asia venisse introdotto il fattore parità. Fattore che, ad oggi, è assente in parecchi Paesi. Il Pakistan, per esempio, ha la maglia nera: se a livello globale il contributo delle donne al Pil è del 36%, qui l’apporto femminile è solo dell’11%. Del resto, solo il 22% di chi lavora in Pakistan è una donna. L’India segue a ruota, con un contributo delle donne al Prodotto interno lordo del 18%.
Tutta questione di livello di sviluppo economico? Non esattamente. Perché in Corea del Sud, una delle economie più avanzate del Pianeta, l’apporto femminile è al Pil è al di sotto – seppur di poco – del tasso medio mondiale. E la stessa cosa vale per il Giappone, dove il contributo femminile al Pil è del 33 per cento.
Chi supera questa media è la Nuova Zelanda, naturalmente, così come la ricca Singapore. Ma la vera sorpresa è il primo posto della Cina, dove le donne rappresentano il 44% ella forza lavoro e pesano per ben il 41% del Pil. Ciò nonostante, se le cinesi potessero arrivare a contare economicamente per il 50% il Pil di Pechino si arricchirebbe di altri 2.600 miliardi di dollari. Fossi nei dirigenti del Partito cinese, lascerei perdere Trump e i suoi dazi e mi concentrerei sul fattore D.