Questo autunno che stiamo attraversando -che in questi giorni ha virato repentinamente verso più rigide temperature-, con i fiumi drammaticamente bassi quando non prosciugati, i terreni inariditi, le fiamme che sbranano foreste e vegetazione, polverizzando in poche ore quel che ha richiesto anni per crescere, l’aria foderata di smog e polveri sottili che respiriamo nelle nostre città… Sì, questo autunno è, purtroppo, lo scenario ideale per parlare del Lugano Photo Days dedicato al cambiamento climatico: resta quest’ultimo weekend (termina domenica 19 novembre) per salire in Svizzera e visitare le mostre che ci mettono di fronte a questa realtà di cui ci conviene prendere coscienza il prima possibile, mostre -sarà un caso?- quest’anno ospitate da una sede diversa, l’ex Macello della città ticinese.
Everyday Climate Change (ECC), a cura di Photo Op in collaborazione con il fotografo americano (ma basato a Tokyo) James Whitlow Delano e la fotografa franco-italiana Matilde Gattoni, rappresenta l’edizione finora più completa di questa mostra itinerante: il progetto di sensibilizzazione dell’opinione pubblica nasce da un’idea di Delano a partire da un feed di Instagram e viene continuamente sviluppato da più di 30 fotografi di tutti i continenti, una vera task force dello sguardo, consapevoli che “la fotografia aiuta le persone a vedere” come diceva Berenice Abbott.
Ma come si può far vedere qualcosa di impalpabile come ciò che ha a che fare con il clima, l’atmosfera, le polveri e l’inquinamento?
E inoltre, questi cambiamenti, non accadono in modo clamoroso ma quasi sempre ben lontano da noi?
Per la seconda domanda, basterà la foto di Russell sull’esondazione della Senna che sommerse Parigi l’anno scorso a risponderci: la punta di lampione che affiora dalle acque come fosse la testa di un uomo ci ricorda le alluvioni di fango che con periodicità sempre più spinta si abbattono sulle nostre città. Ecco perché la somala Amina Suleiman Gas, ripresa dalla reporter africana Georgina Goodwin tra le carcasse del suo bestiame stroncato dalla siccità, non ci parla di questioni distanti cui dedicare una disattenta attenzione: in una veste rosa che cattura i nostri occhi, immobile al centro della foto sul terreno deserto che continua a perdita d’occhio, alza lo sguardo verso quel cielo implacabilmente azzurro e troppo, troppo vasto in un’immagine difficile da dimenticare; a maggior ragione se realizziamo che è come scrutare in uno specchio che riflette anche il nostro volto.
Le foto in mostra, divise per continenti, raccontano la sofferenza di tutto il pianeta: dalla veduta aerea di Vogel sul lago Powell nel deserto dell’Arizona, le cui sponde rigate di bianco testimoniano il livello continuamente in discesa delle acque, alla monotona, funebre colonna di camion colmi di carbone ripresi da Delano in un bianco e nero dalla grana polverosa, appena sfocata, alle porte della città cinese di Xingtai, la più inquinata del paese, che si ostina a utilizzare enormi quantità dell’ormai obsoleto combustibile fossile per alimentare la sua prepotente marcia industriale; dalle ciminiere fumanti raffigurate da Ed Kashi di un impianto di produzione di alcol etilico e zucchero a San Paolo del Brasile, impegnate a bruciare bagassa, l’inquinante combustibile ottenuto come residuo di lavorazione dalla canna da zucchero, all’inquietante nuotata del giovane Peia Kararaua per attraversare il suo villaggio allagato, nell’arcipelago oceanico di Kiribati minacciato dal continuo, inarrestabile innalzamento del livello dei mari, per continuare con gli scatti limpidi e solenni del nostro Paolo Verzone dalla Base Artica di Ny Alesund, dove gli scienziati possono raccogliere numerose informazioni sullo stato di salute del nostro mondo.
Da questo periplo attraverso il pianeta comprendiamo come la fotografia, mezzo d’espressione statico, abbia una forza senza eguali nel rendere le dinamiche con cui il clima del globo si modifica, con una velocità continuamente in aumento: i due scatti affiancati del ghiacciaio austriaco Pasterze, realizzati dal grande Gary Braasch (1944-2016) a distanza di soli dieci anni (2004 e 2014), documentano con impressionante evidenza il drammatico diminuire dell’immensa massa glaciale in un così breve lasso di tempo.
La seconda grande mostra sul tema è Ocean Rage di Matilde Gattoni, un progetto di Tandem Reportages con testi del giornalista italiano Matteo Fagotto: la Gattoni fissa l’occhio della sua macchina fotografica sulle coste del Ghana, Togo e Benin, mostrandoci la rabbia con cui l’oceano mangia i litorali, costringendo gli abitanti dei villaggi a una disperata e vana resistenza all’avanzare dell’erosione. Le storie delle persone costrette ad abbandonare le proprie case, con il dolore dei singoli e la lacerazione profonda del tessuto sociale che questo comporta, sono l’altra faccia di un fenomeno che ha anche un devastante impatto economico, trasformando numerosi e un tempo relativamente prosperi centri costieri dell’Africa occidentale in una lugubre schiera di rovine abbandonate. Togbe Agbavi Koffi, il sessantenne capo villaggio di Agbavi (Togo), racconta che è la terza volta nella sua vita che vede la propria casa distrutta, aggiungendo: “vorrei piangere, ma il capo villaggio non lo può fare.”
L’attento, accurato e coraggioso reportage della Gattoni, nella limpida pulizia delle inquadrature, ci fa non solo vedere, ma sentire e partecipare, calandoci nella realtà di questi villaggi africani che rischiano di essere la profezia di un condiviso futuro prossimo. Ancora evitabile, se lo guardiamo in faccia e agiamo di conseguenza, perché, come scrive in catalogo Fagotto: “I paesaggi lunari di Ocean Rage non sono perduti per sempre, ma sono il risultato di scelte che possiamo cambiare.”
Dopo queste due grandi e ardue mostre, le meravigliose, commoventi foto della fotografa ticinese Daisy Gilardini, nel suo reportage Meraviglie polari. Fotografie dagli estremi del mondo, sono un bagno rigeneratore, un’immersione nel mondo animale che, anche nelle lande desolate, tra iceberg e immense distese di ghiaccio, dimostra vitalità, bellezza e un calore che non saprei chiamare altrimenti che umano. La capacità di Daisy di entrare in sintonia con ambienti solenni e pericolosi, la passione che la spinge a viaggiare da decenni tra i ghiacci del pianeta, affrontando rischi e difficoltà che fatichiamo a immaginare, sono la molla che le consente di stabilire un rapporto di empatia e reverenza con gli animali che fotografa: le loro espressioni, gli orsi bianchi che si abbracciano o giocano con i propri piccoli, lo sguardo disarmante, da bambino, delle giovani foche, la tenerezza indifesa dei cuccioli di pinguino imperatore e l’eleganza sublime della loro epidermide da adulti sono una via per riscoprire “i legami primordiali con Madre Natura e l’interdipendenza tra tutte le specie del mondo” e per coltivare “un profondo rispetto e consapevolezza dell’importanza di questi delicati ecosistemi.”
Concludere il festival con queste magnifiche fotografie non è uno stratagemma consolatorio: di fronte a queste immagini come può non cadere ogni nostra pretesa di superiorità? “Madre Natura non dipende da noi ma noi da lei.” E se la pensiamo diversamente, anche lei, come la nostra amica foca, si farà una bella risata alle nostre spalle!
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