Luce e movimento, e il ritmo sfuggente, indefinibile che scorre attraverso i momenti della nostra vita, accompagnandoli come una musica, un jazz: sono queste le sensazioni che avverto sotto i polpastrelli, mentre sono alla tastiera per raccontarvi la duplice, intrigante mostra fotografica che Giorgio Armani ospita nel suo Silos: The Beats and the Vanities del grande fotografo americano Larry Fink.
Armani ha scelto il nome silos per il suo spazio di via Bergognone, richiamando così la destinazione originaria dell’edificio negli anni ’50, quella di deposito di granaglie, ma non si tratta solo della volontà di tramandare la memoria dell’anima semplice, laboriosa, rustica e operaia che contraddistingueva la zona Tortona, fatta di fabbriche e stabilimenti industriali (a due passi c’è la grande area ex Ansaldo, dove oggi si trovano i depositi del teatro della Scala, il Mudec, Base, ecc…). Le granaglie infatti, dice il padrone di casa, sono “…materiale per vivere. E così come il cibo, anche il vestire serve per vivere.” E la gloria di questo vestire viene celebrata nei quattro piani dell’edificio, che ospitano una selezione ragionata, suddivisa per temi, delle creazioni Armani: un’esperienza che consiglio di non perdere, un viaggio sorprendente e affascinante nella parabola artistica di uno dei più grandi stilisti mondiali. Vogliamo solo aggiungere che anche la fotografia (e le arti) servono al medesimo scopo delle granaglie e degli abiti, non con la stessa necessità pratica, ma certamente il bisogno che ne abbiamo non è meno intenso.
La mostra, anzi le mostre, trovano ospitalità al piano terra dell’Armani Silos.
Già a una prima, rapida occhiata ci accorgiamo dell’atmosfera particolare che evocano gli scatti di questo maestro newyorchese (nato a Brooklyn nel 1941), un mood che ci attira, ma che pare lasciare sempre qualcosa di sfuggente, enigmatico.
Guardando verso sinistra siamo proiettati on the road: l’America del 1958 si srotola sotto i nostri occhi e ci sembra di percepire, attraverso il silenzio delle fotografie, la musica, il rumore e le grida della beat generation, giovani irrequieti, per i quali la guerra era ormai un ricordo lontano e sbiadito, che volevano solo ardentemente vivere, in modo nuovo, libero, anarchico, in ogni caso profondamente diverso da quello dei loro padri.
Larry Fink è un adolescente diciassettenne, che da poco tempo ha imparato a maneggiare la macchina fotografica, e, in questo suo primissimo lavoro, non fa altro che fotografare i propri amici e i loro vagabondaggi, a partire da uno sgangherato viaggio in autostop da New York fino al Messico. Sono 54 immagini attraverso le quali impariamo a riconoscere i volti e le espressioni di quei ragazzi e di quelle ragazze, che, sulle note di una chitarra, fumano, amoreggiano, viaggiano; in una parola: vivono, semplicemente. Li vediamo negli interni semideserti delle vecchie case in legno del sud, a Saint Louis e nel Missouri, tra gli assolati panorami texani di Houston, ma anche al nord, sulle sponde dei grandi laghi o tra le strade di Chicago. Queste foto ravvicinate, in presa diretta, ci fanno sentire il respiro del fotografo, oltre a quello dei suoi amici; raccontano di una affinità di sentimenti e desideri da entrambi i lati dell’obiettivo: Larry non giudica, non commenta, non celebra, semplicemente vuole “raccontare una storia così com’è, come viene vissuta.” Per questo, all’interno delle sue inquadrature nitide, bilanciate, eleganti, si introducono imperfezioni, sbavature, irregolarità: la vita è imprevedibile, caotica, libera, in una parola beat. Larry ha alle spalle, oltre ai romanzi di Kerouac e alle poesie di Ginsberg, un altro nume tutelare: Robert Frank, il rivoluzionario della fotografia americana, cui guarda, pur con minore oltranza di stile.
Ma vi ho parlato di una mostra duplice: infatti, se ci giriamo dall’altro lato, sulla destra, entriamo in una macchina del tempo, dove non guardiamo più con gli occhi di un adolescente, ma con quelli di un maturo e famoso fotografo quasi sessantenne, chiamato da “Vanity Fair” a documentare le feste hollywoodiane. Scorrono ora davanti a noi 70 foto, dal 1999 al 2009, che ci introducono negli esclusivi ambienti dei party di Los Angeles, dove si muovono le star del cinema, della musica, della moda e dello spettacolo: Brad Pitt, Natalie Portman, Adrien Brody, Meryl Streep, Robert Duvall, Elton John, Kid Rock, Naomi Campbell, Tom Ford, Tommy Hilfiger, per non fare che alcuni nomi.
“Mi fa piacere che Giorgio Armani abbia deciso di mostrare The Beats e The Vanities insieme. Le foto hanno più elementi in comune di quanto non sembri a prima vista … In entrambi i casi i soggetti ritratti vogliono essere al centro dell’attenzione.” Così Fink ci illustra una parentela non così evidente di primo acchito tra questi due suoi lavori, a 45 anni di distanza l’uno dall’altro.
Certo, molto è cambiato: le foto di The Vanities hanno una modernità e una disinvoltura nella costruzione dell’inquadratura eccezionali; ci sono scatti in cui vediamo il gioco delle gambe accavallate di due donne al tavolo, ma non i volti, collocati fuori dai bordi dell’immagine, od osserviamo una tavola sfarzosamente apparecchiata, con i nomi delle celebrities sui segnaposti, ma di loro non vi è traccia. O ancora cogliamo delle gambe femminili che scattano veloci, salendo i gradini di un giardino, e solo la didascalia ci dice che si tratta di Kate Moss: sembra di sentire il rumore dei suoi tacchi, forse il suo profumo, ma lei ci è appena scappata. Larry Fink fotografa l’impalpabile: sensazioni, gesti, posture e movimenti; spesso si disinteressa magnificamente di darci immagini chiare e ordinate: si vede la strada che ha percorso in questi decenni, la nuova maturità del suo linguaggio, che non ha paura di sembrare sgrammaticato, perché sa padroneggiarlo per trarne la musica che desidera. Nonostante il titolo Vanities va sottolineato come le sue foto non siano affatto satiriche; non è interessato a mettere alla berlina i vizi o le sgradevolezze delle celebrità, gli interessa piuttosto rivelare l’animo delle persone, farlo sentire. “È questione di empatia… Voglio toccare tutto. La mia vita è profondamente fisica. La fotografia per me è la trasformazione del desiderio.” E infatti le sue foto soddisfano il nostro desiderio di essere presenti a quelle feste, come potessimo ascoltare le confidenze di Spike Lee, spiare le spalle nude di Kate Winslet, ridere alle battute di Naomi Watts; illuderci insomma di essere parte di quegli ambienti e riconoscere infine in quei volti noti le stesse abitudini, espressioni, esitazioni e atteggiamenti di tutti noi.
La vanità non è monopolio dei cosiddetti vips.