In un momento storico in cui si discute di parità fra sessi e di integrazione, in cui l’idea di confine viene ripensata e stravolta e dove la parola “muro” rappresenta il simbolo per eccellenza di chiusura e divisione di persone, è possibile che una spiaggia con una barriera che separa uomini e donne rappresenti oggi una scelta condivisa e sostenuta da molti cittadini? A Trieste sembrerebbe di sì. Da sempre città di frontiera, cosmopolita e crocevia internazionale di genti, il cui simbolo è una Piazza che si chiama dell’Unità di Italia, Trieste preserva ancora, immutato, un angolo di città che sembra fermo al secolo scorso, dove uomini e donne sono, felicemente, divisi da un muro.
Non si tratta di una metafora, ma di un muro vero, il Pedocìn, di cemento e mattoni, bianco, alto tre metri che divide l’ultimo stabilimento balneare europeo in cui la spiaggia e il mare sono ben distinti in base ai sessi: metà area spetta alle donne e bambini fino ai 12 anni, metà agli uomini. Per esattezza dal 1959 la parte dedicata alle donne è un po’ più ampia di quella per gli uomini, ufficialmente perché deve ospitare anche i bambini. Nell’area femminile è presente anche un bar. Sempre e rigorosamente vietato agli uomini che, anche solo per bere un caffè, devo rivolgersi altrove.
Ma perché la separazione è vissuta così serenamente e così fortemente mantenuta proprio in una città che storicamente ha da sempre convissuto con il concetto di frontiera e divisione? La scelta della tintarella separata per sesso non è stata mai spiegata chiaramente. È comunque una scelta lontana da un’idea di privazione della libertà, anzi si avvicina quanto più possibile al concetto di emancipazione e di libertà di scelta e lontana dalla moderna promiscuità tipica ormai di tutte le spiagge. Qui donne e uomini preferiscono la familiarità divisa per sesso.
Il costo della castità estiva? Dal 1938 l’ingresso è diventato a pagamento e oggi è di 1 euro per l’entrata giornaliera. Recentemente il Pedocìn è stato oggetto di un lungometraggio proiettato alla 69esima edizione del festival del cinema di Cannes, nella sezione ufficiale del Fuori Concorso.
Un documentario L’ultima spiaggia della coppia registica Thanos Anastopulous (greco ma abitante a Trieste da otto anni) e Davide Del Degan (triestino da sempre) che sottolinea come «Non avevamo appuntamenti, né personaggi, né una sceneggiatura ben definita; non abbiamo mai stimolato un dibattito. Sono le storie che hanno scelto noi». Storie per le quali ci sono voluti due direttori della fotografia, una donna, Debora Vrizzi per il settore femminile, e un uomo, Ilias Adamis, per la parte maschile in modo da preservare la divisione e poter filmare la quotidianità del Pedocìn per un anno.
Di tenore diverso, l’ironico libro “El Pedocin” di Micol Brusaferro che racconta nella lingua ufficiale di Trieste, il triestino, la vita e i viz (battute ironiche) delle mule (donne triestine) che rappresentano l’80% dei frequentatori dello stabilimento.
Da dove nasce il nome?
Il nome ufficiale di “Bagno Lanterna” deriva dalla lanterna collocata sul molo nel 1832 come faro marittimo. A Trieste però viene comunemente chiamato “Pedocìn”, la cui etimologia ha però un’origine incerta perché, in dialetto triestino, la parola ha due significati: pidocchio o cozza. Nel primo caso il nome richiamerebbe un preciso periodo storico in cui, ai tempi di Francesco Giuseppe I d’Austria, la spiaggia veniva chiusa la pubblico dalle 2 alle 4 del pomeriggio per permettere ai soldati di lavarsi e di “spidocchiarsi”. Il significato cozza invece farebbe riferimento a quando nelle acque circostanti venivano coltivate le cozze.