Lo sport è senza dubbio condivisione, integrazione. In alcuni contesti può anche essere sinonimo di emancipazione. In alcuni Paesi, per esempio, è una via per accedere a possibilità lavorative, che altrimenti sarebbero garantite solo a chi studia e quindi gode di un certo reddito. Emancipazione economica, dunque, ma non solo. Questa settimana, grazie all’associazione AIESEC, che organizza campi di volontariato e stage in tutto il mondo, ho ospitato una ragazza colombiana di Calì, la terza città del Paese per numero di abitanti. Nel suo Paese lo sport a livello professionistico rappresenta una concreta, anche se non semplice, possibilità di guadagno. Ma per una ragazza, uno sport come il calcio rappresenta anche un modo per combattere una cultura ancora molto maschilista.
Laura Corrales ha diciotto anni e gioca a calcio da quando ne aveva quattro. Non è stato facile coltivare questa passione, anche perché la madre stessa non lo considerava uno sport da bambine ed era costantemente preoccupata per la poca delicatezza dei maschietti nei suoi confronti. Avrebbe piuttosto preferito che la figlia continuasse il roller skating, sport molto diffuso in Colombia, che ti rende forte “senza costringerti ad assomigliare a un maschio”.
Tra il 2012 ed il 2013 il calcio femminile in Colombia si è diffuso rapidamente ed è diventato di moda attirando tante ragazzine. Ciò nonostante, raramente viene trasmessa in televisione una partita di calcio femminile, sebbene la nazionale femminile colombiana attualmente occupi il 22º posto del FIFA/Coca-Cola Women’s World Ranking. Laura ha giocato fino allo scorso anno nel Deportivo Calì, ma ha dovuto smettere appena compiuti i diciotto anni: non esiste più la categoria femminile over 18. La passione l’ha spinta a perseverare e ha continuato a giocare nella squadra universitaria.
Se in Italia ancora esiste discriminazione tra atleta maschio e atleta femmina, in Colombia il tutto va moltiplicato esponenzialmente: nella società colombiana permane la figura di donna che nasce per essere essenzialmente moglie e madre. Basta pensare che se in Italia il 1875 è l’anno in cui viene emanato un regolamento generale universitario che, per la prima volta esplicitamente, ammette le donne all’università alle stesse condizioni degli uomini, in Colombia la prima donna a frequentare l’università fu nel 1935 Gerda Westendorp. Gli equilibri nella società colombiana si stanno modificando molto lentamente ed esistono più donne che lavorano, anche se le posizioni più ambite rimangono comunque ricoperte da uomini. Lo sport, mi ha raccontato Laura, è un altro terreno minato, dove la ragazza, la donna deve dimostrare molto di più per essere accettata in una squadra importante, ma quando ce la fa come Mariana Pajòn, ciclista medaglia d’oro olimpica, diventa una specie di eroina.
Lo sport in Colombia ha anche una valenza in più: è un modo per uscire dalla povertà. Alcuni dei più noti giocatori colombiani al mondo arrivano dalle periferie più indigenti del Paese, basti pensare a Juan Guillermo Cuadrado (Juventus) e Carlos Bacca (AC Milan). Con orgoglio Laura mi racconta che entrambi i genitori lavorano e le hanno quindi garantito la possibilità di iscriversi all’università, opportunità ancora non per tutti nel suo Paese. Lei gioca per passione e ha dovuto combattere contro una diffusa discriminazione sessuale per realizzare il suo sogno. Insieme all’orgoglio si percepisce tuttavia nelle sue parole il senso di colpa per aver privato ragazze con maggiori difficoltà economiche di un potenziale posto di lavoro.
Lo sport è integrazione, emancipazione e condivisione: quando qualche sera fa Laura ed io abbiamo giocato insieme a pallacanestro abbiamo parlato la stessa lingua.