Tutti a scuola con i guanti, il visore 3D e il joystick: molte potenzialità (ma quali rischi)?

6685782417_29e9f8b8daImmaginate il maestro, quello di una volta. La sua cattedra era generalmente poggiata sopra una pedana, rialzata quel tanto che bastava per incutere un senso di timore negli studenti, ma anche per sottolineare che la lezione, di tipo frontale, andava dall’alto verso il basso. Immaginate ora una classe di bambini che indossano i visori 3D e, comodamente seduti al loro banco, visitano l’Acropoli di Atene, ordinano in inglese in un ristorante di Londra, esplorano l’interno di un vulcano o progettano gli spazi verdi della propria città.

Sebbene per la maggior parte delle scuole italiane l’uso di questi strumenti rappresenti ancora un miraggio, iniziano a diffondersi anche da noi sperimentazioni didattiche di grande interesse, grazie a tecnologie per la realtà aumentata (di cui è un esempio Pokemon Go, che sovrappone elementi digitali alla realtà che percepiamo con i cinque sensi) e immersiva (che immerge l’utilizzatore in un mondo virtuale a tre dimensioni, nel quale è anche possibile interagire con le proprie mani o il movimento del corpo). I bambini di alcuni “avamposti” scolastici non si limitano, dunque, a seguire parte della lezione su una LIM o a studiare su un ebook, ma usano Minecraft o si servono di piattaforme tecnologiche come “edMondo”, sviluppato dall’Indire – Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa del Ministero dell’Istruzione. Economicamente sempre più accessibili, guanti, caschetti, visori 3D e joystick si preparano ad avere un forte impatto sul futuro, non solo dei videogame e del cinema, della riabilitazione e della psicoterapia, ma anche della formazione. Il loro utilizzo in ambito scolastico è coerente con un approccio di tipo costruttivista, secondo il quale alla lezione “frontale” devono essere preferite modalità di insegnamento basate sull’esperienza diretta, sulla collaborazione, sull’acquisizione di strumenti critici e capacità di generare nuove conoscenze.

Le sperimentazioni condotte finora, in Italia e all’estero, mostrano come alcuni contenuti – scienza, medicina e matematica, ma anche arte, storia, chimica e astronomia – si prestino particolarmente bene all’apprendimento in ambienti virtuali, il cui successo dipende anche da una sostanziale trasformazione delle dinamiche interpersonali: il ruolo di chi apprende è attivo, studenti e insegnanti possono unirsi e collaborare nella risoluzione di problemi, si impara in modo coinvolgente e divertente. Non sorprende, quindi, che recenti ricerche statunitensi registrino un aumento nella motivazione allo studio e un miglioramento nella collaborazione tra studenti nelle classi che usano queste tecnologie: se mettiamo “la realtà in gioco”, per citare il titolo di un bellissimo libro di Jane McGonigal, l’apprendimento si arricchisce di leggerezza, divertimento e immaginazione.

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Certo non mancano le perplessità e i rischi. In primo luogo, senza un buon contenuto e insegnanti capaci di utilizzare efficacemente questi metodi didattici, anche la migliore tecnologia è inutile. Quanto ai rischi, iniziano ad essere pubblicati i primi studi relativi all’impatto delle esperienze immersive sullo sviluppo psicologico in età infantile. Baumgartner e i suoi colleghi hanno mostrato come nei bambini tra i 6 e gli 11 anni le aree prefrontali coinvolte nel “feeling of presence” (ossia “l’esserci”, il sapersi e sentirsi presenti nel mondo) non siano ancora pienamente formate: ne consegue, concludono gli studiosi, che un utilizzo troppo precoce della realtà virtuale potrebbe influenzarne lo sviluppo e modificarne i vissuti.

Studi condotti presso il centro di ricerca della Stanford University suggeriscono, invece, che le esperienze immersive favoriscano l’acquisizione di falsi ricordi in bambini al di sotto dei 5 anni. Cosa significa? Che un bambino può credere di aver realmente vissuto qualcosa che ha solo “visitato” virtualmente.

In sostanza, a fronte delle tante potenzialità sul piano dell’apprendimento, l’accesso a mondi virtuali potrebbe influire su aspetti fondanti dell’esperienza umana come la presenza, l’identità e la memoria, con evidenti implicazioni etiche. Ne consegue che la riflessione e le indicazioni educative dovranno essere continuamente aggiornate e riformulate in base alle evidenze di ricerca, che ci aiuteranno a valorizzare le potenzialità di questi strumenti, anche nei contesti didattici, e a non subirne i rischi.

A questo proposito, un sempre illuminante David Foster Wallace scrive: “Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?”. Il rischio da evitare è quello di “immergerci”, tutti insieme, in qualcosa che non comprendiamo.