Sappiamo che c’è un cono d’ombra sull’aborto: che ci impedisce di parlarne apertamente, che lo carica di non detto, che costruisce colpe su paure. Ma quel che il libro di Livia Turco – “Per non tornare al buio. Dialoghi sull’aborto” (ed. Ediesse), presentato in settimana in Parlamento – osa dire, è che il cono d’ombra non nasce lì, ma investe la maternità tutta. La maternità di oggi infatti, a guardarla in faccia, non ha identità. Lo capiamo perché non riusciamo a parlarne senza toccarne gli estremi: surrogata, negata, santificata, mortificata. La maternità “normale” non sembra avere spazio nella narrazione del terzo millennio. E Livia Turco lo spiega così: “L’esperienza materna è stata confinata in un cono d’ombra perché costa molta fatica per le donne, perché le parole ad essa dedicate sono prevalentemente “costo”: per le aziende, per le famiglie, per il welfare”. E aggiunge: “Il cono d’ombra ha radici più profonde. Attiene al piano simbolico e alla narrazione culturale”. La maternità senza rinunce della sua generazione non ha avuto infatti il dono di una nuova narrazione: privata di parole nuove che la definissero sia simbolicamente che concretamente, l’esperienza della maternità è rimasta così schiacciata tra ciò che non è più e ciò che non è ancora.
“E’ stato talmente duro liberarsi dallo stereotipo della maternità imposta, è stato talmente doloroso sentirci definire egoiste perché abbiamo preteso la possibilità di scegliere la maternità e anche assumerci il dramma il dolore dell’aborto, che non ci siamo rese conto di quanto siamo state brave a vivere la maternità come gioia interiore, nuova cittadinanza sociale, nuova femminilità, nuova relazione con gli uomini”. Non lo hanno “cantato” come avrebbero potuto, e di quel canto oggi non è rimasto niente.
Le 50 pagine di introduzione che precedono le 150 pagine di interviste a ginecologi, obiettori e non, sul tema dell’aborto, potrebbero essere un libro a sé. Se non fosse che tracciano un perimetro nuovo e coraggioso al tema dell’IVG, l’Interruzione Volontaria di Gravidanza, che dal 1978 in Italia è legale ma difficile, dolorosa e sempre sotto attacco. E il perimetro è quello di una necessità più grande, un’opportunità preziosa: “La cura delle persone deve diventare un grande obiettivo politico, un orizzonte di vita, un modo di essere delle relazioni pubbliche, un tratto della democrazia”. Iniziando proprio con la più difficile ed esclusiva delle esperienze, quella che oggi non ha un volto né per difendersi né per affermarsi: la scelta di essere madri o di non esserlo.
Per questo l’autrice lancia un invito accorato alle nuove generazioni, che hanno la possibilità di riscrivere, meglio, questa storia. “Care ragazze, cari ragazzi, ora tocca a voi!” scrive infatti nella lettera che apre il libro: “create un’immagine pubblica della maternità che sia bella perché vera. Un’immagine della maternità in cui donne e uomini crescono insieme i figli, in cui le mamme fanno politica, volontariato, pratica sociale, portando con sé i figli e trovando tempo e spazio per loro nei luoghi pubblici, nei luoghi della polis. In cui i papà imparino a prendersi cura dei figli: li rende uomini più maturi e con tanta ricchezza in più nel cuore, perché scoprono sentimenti e dimensioni nuovi della vita. Create un’immagine pubblica che rappresenti “la potenza della maternità”. Una potenza che dovremmo tutti imparare perché è la potenza del dono, della gratuità, della presa in carica dell’altro. Per questo dovete pretendere dalla politica che si impegni finalmente a costruire una società accogliente nei confronti del figlio che nasce. Sarebbe bello se voi riusciste a realizzare quello che noi non siamo riusciti a fare”.
E, in tutto il libro, risuona forte la raccomandazione: non date niente per scontato! Anche i diritti che oggi abbiamo: possono portarceli via. Parliamo sempre, parliamo di tutto, anche dell’aborto: per non tornare al buio.