Ci sono diritti che assomigliano a corse ad ostacoli: sono sanciti da una legge o da una sentenza eppure per poterne godere i cittadini devono percorrere la strada più lunga. Quella che passa per il giudice di un Tribunale a cui chiedere solamente che venga riconosciuto un diritto che dovrebbe essere garantito.
Da alcuni mesi – grazie a una sentenza della Corte Costituzionale (di cui abbiamo già parlato qui e qui) tutte le mamme e tutti i papà avrebbero il diritto di dare ai propri figli entrambi i loro cognomi. Avrebbero, appunto. Le cose infatti non stanno proprio così.
Secondo i dati raccolti dalla Rete per la Parità sono ancora una piccola minoranza le famiglie che hanno visto riconosciuto questo diritto. Per capire meglio che sta succedendo e di chi è la responsabilità di questi ostacoli, ne abbiamo parlato con Rosanna Oliva de Conciliis, presidente dell’associazione Rete per la Parità che nel corso degli ultimi mesi si è impegnata per diffondere il contenuto della sentenza e sollecitare le istituzioni sulla sua applicazione. Rosanna Oliva de Conciliis è la stessa che presentò un ricorso, accolto dalla Corte Costituizonale, per poter partecipare al concorso per la prefettura; dà lì si aprì la porta per le donne alle carriere in magistratura, prefettura e diplomazia. E oggi, a distanza di 57 anni, continua a battersi per vedere riconosciuta una parità sostanziale fra uomini e donne in Italia, come previsto dalla Costituzione.
Facciamo chiarezza: con la recente sentenza della Corte Costituzionale 268/2016 è finalmente possibile dare ai propri figli anche il cognome della madre?
Sì, è già possibile dal 29 dicembre 2016 (giorno successivo alla pubblicazione della sentenza), purché entrambi i genitori, coniugati o no, lo vogliano. Vale anche per i genitori adottivi.
Non c’è bisogno che venga prima approvata una legge?
Se i genitori sono d’accordo, non serve una legge. Dalla sentenza deriva un effetto immediato: il diritto ora riconosciuto ai genitori di attribuire al figlio, se sono entrambi d’accordo, anche il cognome della madre.
E per quanto riguarda invece la scelta di dare ai propri figli il solo cognome della mamma?
In mancanza di un’interpretazione ufficiale la sentenza è stata applicata in maniera diversa nei vari comuni. Alcuni permettono anche la scelta del solo cognome della madre, in altri solo l’aggiunta di questo cognome a quello paterno, in altri ancora il cognome materno può precedere quello paterno. In alcuni comuni (ad esempio Torrita Tiberina) si accetta che il cognome materno possa sia seguire sia precedere quello paterno, in altri (ad esempio nel comune di Andria) si ritiene che il doppio cognome possa essere solo paterno e materno. In Lombardia (Comune di Crema) un problema deriva della procedura on-line Icaro, che non prevede la possibilità di optare per il doppio cognome.
Di chi è la responsabilità di questa confusione?
Del ministero dell’Interno che avrebbe dovuto fornire indicazioni e se ne guarda bene per non incorrere nell’inciampo che è avvenuto per i cognomi di coloro che contraggono un’unione civile. E, aggiungerei, anche del Governo che non istituisce presso il dipartimento delle Pari Opportunità un tavolo tecnico interministeriale con Anci e Anusca per affrontare i problemi più urgenti e parlare dei contenuti della futura legge.
Un ufficio anagrafe potrebbe rifiutarsi di registrare il bimbo o la bimba con entrambi i cognomi dei genitori?
Se i genitori sono d’accordo, il rifiuto sarebbe assolutamente ingiustificato.
Cosa possono fare i genitori in questo caso?
Consigliamo di far mettere per iscritto il provvedimento di diniego parziale e opporvisi giudizialmente, chiedendo la rettifica dell’atto di nascita. La Rete per la Parità può chiedere la disponibilità al patrocinio gratuito da parte di una delle avvocate che già ha seguito pro bono la vicenda presso la Corte costituzionale.
Quanto tempo può volerci?
Si tratta di un iter giudiziario che richiede circa un anno. Per evitarlo e avere un risultato in tempi più brevi si potrebbe presentare una domanda al prefetto.
Le sembra che i Comuni italiani stiano recependo le indicazioni della Corte Costituzionale?
Alcuni Comuni, soprattutto i piccoli, le stanno recependo, ma applicare una sentenza così innovativa rispetto a procedure secolari, richiede anche di modificare le informazioni disponibili online nella pagina dedicata alle denunce di nascita, magari mettendo anche sul sito in evidenza la notizia della sentenza. Inoltre va modificata la modulistica. Come Rete per la Parità abbiamo chiesto al ministero dell’Interno di fornire indicazioni ai Comuni. Il risultato è stato la circolare n.1 del 19 gennaio 2017, indirizzata ai Prefetti ma, come prevedevamo, gli effetti sono molto limitati. E purtroppo non si è rilevata sufficiente neanche la lettera che il presidente dell’Anci, sempre su pressioni della nostra associazione, ha inviato ai sindaci il 26 gennaio, con allegato un facsimile del nuovo modulo da adottare.
Ci sono ritardi e inadempienze anche a livello nazionale?
Alcuni dei problemi che si riscontrano nei centri nascita e nei comuni derivano da inadempienze e ritardi da parte delle amministrazioni centrali competenti. Innanzitutto da parte del ministero dell’Interno, che non ha chiarito se sia possibile per ora solo aggiungere il cognome della madre a quello paterno. Per le adozioni avrebbe dovuto attivarsi il ministero della Giustizia e, per i nati all’estero, il ministero Affari Esteri, ma non abbiamo notizie al riguardo.
Cosa ne pensa del testo di legge del 2014, attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato? È sufficiente o dovrebbe essere rivisto?
Il testo approvato dalla Camera nel 2014, con effetti rinviati nel tempo e basato tutto sul criterio della scelta dei genitori e addirittura anche del figlio una volta divenuto maggiorenne, deve essere profondamente rivisto alla luce del contenuto della sentenza della Corte costituzionale e dell’urgenza di una soluzione normativa. Non vale ritenere che approvare il testo della Camera senza modifiche, sia una soluzione migliore perché esente dal rischio dell’affossamento. In realtà il rischio esiste comunque. Ed è chiaro che senza una forte iniziativa in Parlamento (sostenuta dal Governo) veti incrociati e ostruzionismo di alcune forze politiche prevarrebbero come in passato. Come Rete per la Parità abbiamo formulato e fatto pervenire sei emendamenti al testo preso a base. Sono stati presentati insieme con altri. In totale sono trentatré, di rappresentanti di vari Gruppi. La prova che il testo della Camera va profondamente modificato.
Perché una parte della politica è contraria a questa norma?
Ancora ci si appella alla difesa dell’unità familiare. Ma evidentemente coloro che si oppongono non hanno neanche letto la sentenza, che ribadisce, come affermato in precedenti sentenze, che l’unità familiare non è mai aiutata dalla discriminazione tra i coniugi.
Cosa servirebbe perché in futuro non ci siano più discriminazioni?
Intanto serve una buona legge, ma i tempi sono incerti e comunque non brevi senza un’iniziativa del Governo sul Parlamento, al quale abbiamo chiesto inutilmente di attivarsi, come ha fatto per la legge sulle unioni civili. A oltre quattro mesi dalla sentenza non è possibile fare previsioni sui tempi in Senato. Per ora gli emendamenti sono all’esame della Commissione Bilancio. Nel frattempo ancora si applica una norma dichiarata incostituzionale e i diritti non solo delle madri continuano a essere calpestati.
Secondo lei questo tema è sentito dall’opinione pubblica?
L’argomento è importante e sentito nell’opinione pubblica. Già qualche anno fa una petizione che sollecitava la legge aveva raccolto 50.000 firme e, più recentemente, è stata presentata un’interrogazione in Parlamento. Della vicenda si discute online, mentre sulla stampa compaiono vari articoli. Importante anche il lavoro delle associazioni come, ad esempio, Zonta che ha organizzato conferenze stampa e convegni in varie città, raccogliendo il testimone di Maria Magnani Noya, prima sindaca donna di Torino, che nel 1979, da deputata, presentò la prima proposta di legge sui cognomi. A questa associazione appartiene anche Susanna Schivo, l’avvocata che ha patrocinato la coppia di Genova che ha vinto il ricorso alla Corte costituzionale.