40 anni. Oggi ad un ragazzo di 20 anni ne servono altri 18 per diventare adulto e costruirsi una vita autonoma. E con i capelli bianchi inizierebbero a spuntare anche le prime sicurezze. Andrà peggio nel 2030 quando lo stesso ragazzo ventenne di anni ne impiegherà addirittura 28. Per fare un paragone: nel 2004 l’indipendenza si conquistava intorno ai 30 anni. Questo dato emerge dal rapporto “Il Divario generazionale tra conflitti e solidarietà. Generazioni al confronto” presentato dalla Fondazione Bruno Visentini il 22 marzo a Roma.
Ma cosa significa “diventare adulti”? Nel linguaggio corrente un giovane diventa adulto quando tocca delle tappe importanti della vita: conclude la parte più rilevante del suo percorso formativo; ha un lavoro stabile; si sposa oppure mette al mondo un figlio, prendendosi così la responsabilità di una nuova generazione. Soglie che oggi si sono spostate più in là e con il tempo l’orizzonte si farà sempre più lontano. Colpa del “divario generazionale”. “La perdita di prospettiva di una vita migliore rispetto a quella dei propri genitori”, per spiegarlo con le parole del professore Luciano Monti, condirettore scientifico della Fondazione Bruno Visentini e docente LUISS.
I Millennials italiani non hanno perso solo la prospettiva ma anche la speranza: secondo un sondaggio condotto tra circa 10.300 giovani tra i 16 e i 30 anni di 28 Stati membri dell’Unione Europea, più della metà (57%) si sente marginalizzata ed esclusa dalla vita economico-sociale del proprio paese a causa degli effetti della crisi del 2008. Nel nostro Paese questo disagio è avvertito dal 78% di giovani italiani (+21 punti percentuali rispetto alla media UE).
Se vuoi conoscere un fenomeno devi caprine la portata e quindi lo studio sul divario generazionale della Fondazione Bruno Visentini è partito dalla sua misurazione con il cosiddetto “Indice di Divario Generazionale”, messo a punto dai ricercatori del “ClubdiLatina” nel 2014. L’IDG individua dodici “indicatori” del gap tra generazioni come la disoccuazione, salute, legalità, accesso al credito. Ma l’Italia non è l’unico paese che ha provato a misurare il fenomeno. Un modello simile è l’ “Intergenerational Fairness Index” inglese. A differenza di quello italiano, l’indicatore inglese di equità tra le generazioni fa un paragone tra i paesi europei e pone l’Italia al penultimo posto per equità intergenerazionale dopo la Spagna e davanti solo alla Grecia.
I Millennials italiani “crescono” in una società costruita e gestita a misura delle generazioni precedenti. Come spiega il professor Monti ad Alley Oop: “Paghiamo lo scotto di decenni di politiche fatte per i Baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1965. Lo dimostra anche l’indicatore della ricchezza: sono più abbienti, lo resteranno fino alla fine. Avranno pensioni prevalentemente calcolate con il sistema retributivo e questo permette il cosiddetto trascinamento della ricchezza”. Ad influire negativamente sulla nostra situazione c’è un dato incontrollabile: l’età media del cittadino. “Nel 2030 – il punto più lontano nel tempo a cui arriva il nostro indicatore – l’Italia sarà il secondo Paese più vecchio del mondo. Il cittadino medio italiano avrà 51 anni. Il Paese sta invecchiando anagraficamente e questo rende tutto più difficile”, spiega Monti. Timori sul rallentamento economico legato alla contrazione della forza lavoro o sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici sono tutt’altro che infondati.
C’è un momento del passato recente il cui il divario tra generazioni si è esacerbato: è l’anno della crisi, il 2007. Dice Monti: “purtroppo il momento in cui si è aperta la forbice non è quello in cui si è generato il problema. La crisi che ci ha colpito duramente è stata una cartina tornasole: ha colpito la generazione che in quel momento era più debole ma la debolezza di quella generazione va ricercata a partire dagli anni 70” .
Cause e possibili soluzioni. La ricerca della Fondazione ha fatto anche un’analisi delle principali esperienze di riduzione del divario generazionale, sia italiane che europee. “Tra i vari strumenti che sono stati valutati positivamente – spiega il professore – uno viene dalla Gemania. L’Academy Cube è un’agenzia composta sia da università che imprese che costruisce un percorso per i ragazzi che vanno a scuola ed è in grado di prevede l’occupazione futura. Noi ci stiamo ispirando alla Nuova Zelanda dove le politiche ricevono una valutazione di impatto non solo ambientale ma anche generazionale. Questo è il modello a cui tendere e un esperimento di questo tipo è stato fatto dal Comune di Latina esaminando le delibere già assunte in passato e valutandone l’impatto. Non è ancora una norma ma è un’esperienza che molti comuni italiani potrebbero provare a fare”.
Il rapporto si conclude con alcune proposte fatte dalla Fondazione per ridurre il problema. Si va in due direzioni. La prima è una rimodulazione dell’imposizione fiscale in funzione dell’età tenendo conto della minor maturità contributiva e fiscale dei giovani rispetto alle generazioni che godono di maggiore stabilità economica. Così, spiega il professore, “a parità di reddito una persona più avanti negli anni e finanziariamente più stabile verserebbe un’aliquota più alta del giovane”. La seconda misura è un contributo di solidarietà temporaneo da parte della generazione più matura che gode delle pensioni più generose. Due milioni di persone posizionate nella fascia apicale verrebbero chiamate a sottoscrivere un patto intergenerazionale che andrebbe ad alimentare un fondo per le politiche giovanili. “‘Un patto tra generazioni‘: in cui in modo figurato un anziano adotta un giovane che non per forza deve essere suo figlio, altrimenti rientreremmo nell’ammortizzatore familiare che è rispettabilissimo ma non è la soluzione al problema”.