Da Kennedy a John Lennon. Grazia Neri racconta il mondo della fotografia

gn017

Courtesy Grazia Neri

Confesso che l’incontro di cui oggi vi racconterò mi dava un po’ di preoccupazione: non capita tutti i giorni di intervistare Grazia Neri, che, parafrasando De Gregori, possiamo per brevità chiamare la signora della fotografia.

All’atto di fissare l’appuntamento avevo avvertito una leggera titubanza – “ok per venerdì, se non succede niente: sa alla mia età…” mi aveva detto -, invece non ci sono contrattempi e mi presento come convenuto nel suo appartamento milanese in zona Bastioni, luminoso ed elegante, ma funzionale, privo di ogni ostentazione. Dopo due minuti sono totalmente a mio agio: la sua cortesia senza fronzoli è lontana mille miglia dal calcolato distacco di chi, considerandosi importante, vuole far percepire all’interlocutore un sottinteso “si ricordi con chi sta parlando”.

GRAZIA NERI © Douglas KIRKLAND / GRAZIA NERI

©Douglas Kirkland/Courtesy Grazia Neri

La ascolto, osservando ora il suo viso dagli occhi trasparenti e l’espressione schietta, ora le diverse foto alle sue spalle, e penso che questa signora spigliata e vivace ha fondato (nel 1966) e diretto la più importante agenzia fotografica italiana di respiro internazionale per oltre un quarantennio; la battuta di un famoso direttore di quotidiano diceva: “ma i giornali … li fa la Grazia”.

Qualche numero aiuta a intuire cosa fosse la Grazia Neri: al momento della sua chiusura nel 2009 l’archivio aveva 15 milioni di fotografie analogiche e 6 di digitali; l’elenco dei grandi fotografi rappresentati nel tempo è impressionante: James Nachtwey, Alfred Eisenstaedt, Helmut Newton, Robert Doisneau, Annie Leibovitz, Douglas Kirkland, Roger Hutchings, Don McCullin; tra gli italiani: Ugo Mulas, Mario Dondero, Uliano Lucas, Paolo Pellegrin, Alex Majoli. Tra gli scoop venduti in esclusiva, ci sono stati i fotogrammi sulla morte di Kennedy a Dallas; le foto di John Lennon e Yoko Ono (della Leibovitz) a letto tre ore prima che lui venisse ucciso; il primo trapianto di cuore di Barnard; l’attentato a Reagan; la foto di Giovanni Paolo II qualche istante prima di essere colpito da Ali Agca.

Iniziamo la nostra conversazione parlando del libro autobiografico Grazia Neri, La mia fotografia, Feltrinelli, uscito da qualche anno. Libro che ho divorato in quest’ultimo mese: scorrevole, pieno di notizie, informazioni, aneddoti e riflessioni; la migliore continuazione, con altro respiro, della nostra chiacchierata.

La decisione di fondare la “Grazia Neri” le venne in seguito al suo primo lavoro in un’agenzia giornalistica. La sua è anche la storia di un’imprenditrice a cavallo degli anni ’50 e ’60?

Effettivamente la parte imprenditoriale aveva per me un certo fascino. Ho notato spesso che molte persone preferivano soltanto la parte glamour del lavoro, i momenti più gratificanti, mentre io ho sempre avuto la passione di dare un ordine preciso anche agli aspetti economici e di gestione: tutte le cose dovevano prendere posto nelle giuste caselle, debiti e crediti, percentuali e contratti. Forse anche perché sono stata sfortunata nella mia prima infanzia: ho perso mio padre giovanissima e questo ha causato in me un trauma enorme, che mi ha dato un fortissimo senso di responsabilità. Mi sono formata sul campo, imparavo la gestione quotidiana dell’azienda lavorando e, col tempo, sono diventata un po’ più abile. Mi ha fatto scuola leggere i quotidiani: Il Sole 24 ORE è stato una bussola. Ancora oggi io inizio sempre la giornata con la mazzetta dei giornali: Corriere, Repubblica, Stampa, Sole; ne ho bisogno, come ho sempre fatto per 54 anni di lavoro e 46 di agenzia.

Vorrei tornare sulla sua idea imprenditoriale. Lei ha visto la possibilità di creare qualcosa di nuovo: un’agenzia fotografica, cioè una realtà che prima, in quei termini, non c’era in Italia. Le agenzie esistenti erano qualcosa di completamente diverso.

Vede, la mia fortuna nasce dall’aver fatto il liceo linguistico Manzoni e di conoscere – siamo negli anni ’50 e primi ’60 – le lingue straniere. I giornali italiani allora avevano sete di servizi fotografici stranieri, guardavano ai grandi rotocalchi come Paris Match, Time e Life, li invidiavano, ma non avevano personale preparato e non sapevano come muoversi. Io ho capito che la fotografia si stava sviluppando enormemente e, proprio per questo, non era possibile che ogni fotografo presentasse le proprie foto ai giornali: ci voleva un filtro, qualcuno che conoscesse il mercato e sapesse selezionare, nel flusso continuo di immagini, le migliori, quelle capaci di raccontare storie e avvenimenti, soddisfacendo le esigenze dei quotidiani e rotocalchi. L’agenzia svolgeva anche un altro compito, delicato e cruciale: orientare i fotografi a individuare gli argomenti maggiormente richiesti; questo significava far incontrare domanda e offerta in modo che si alimentassero a vicenda: i servizi mirati spingevano le vendite dei giornali e queste permettevano di commissionare nuovi servizi in un circolo virtuoso.

GRAZIA NERI © RUY TEIXEIRA / GRAZIA NERI

©Ruy Teixeira/Courtesy Grazia Neri

Dopo la morte di suo padre, sua mamma decide di non andare a stare in campagna dai nonni, ma di restare a Milano, andare a lavorare, essere indipendente. Quanto ha contato questo esempio per lei?

Molto, io sono cresciuta con il suo modello, mi ha trasmesso un fortissimo senso del dovere e la volontà di tenere tutto sotto controllo; finché ho avuto l’agenzia, io sono sempre stata in ufficio dalle 8 di mattina alle 8 di sera e tutti i sabati mattina. Non riuscivo a delegare, volevo controllare tutto.

Negli anni ’50 non c’erano molte donne imprenditrici o sbaglio?

Non ce n’erano molte davvero! A me dava così fastidio che si meravigliassero che fossi una donna, ma io non ci facevo caso, per me era indifferente. Erano gli altri a stupirsi.

Mi arrischio a farle una domanda che può essere molto banale. Cosa è stata per lei la fotografia?

La fotografia è stata qualcosa che mi è capitata, accanto al lavoro giornalistico. Per destino mi sono trovata a dirigere un’agenzia giornalistica (la News Blitz) a 21 anni a causa della malattia del proprietario: ho iniziato a lavorare gomito a gomito con i fotografi. Erano tutti cani sciolti, sembravano senza guida; incominciai editando i provini dei servizi fotografici: era un lavoro che richiedeva velocità e occhio, doti che mi sono formata, ancora una volta, sul campo.

E oggi cos’è la fotografia per lei?

Guardare i nuovi talenti; seguire i giornali e le riviste e vedere l’uso che fanno della fotografia.

L’uso della fotografia da parte dei giornali e del web in cosa è cambiato?

Innanzi tutto la usano molto di più, la fotografia ha uno spazio maggiore, le danno più importanza e finalmente hanno cominciato a indicare i crediti: il credito costituisce la firma del fotografo, è il riconoscimento del suo essere autore e permette di vedere i nuovi talenti. È un punto molto importante, in Italia a lungo, e ancora oggi, colpevolmente trascurato.

In agenzia voi da un lato producevate i servizi, commissionandoli ai fotografi, dall’altro commercializzavate quelli prodotti di loro iniziativa, giusto?

Certo, facevamo entrambe le cose. I servizi nati dai fotografi erano la parte più ricca e anche più interessante, perché presumevano un dialogo continuo fra l’agenzia e il fotografo e ci permettevano di sostenere i progetti che sentivamo di potere vendere. In questo spazio si giocava anche la possibilità di aiutare a produrre ricerche meno commerciali, lavori importanti, che talvolta duravano anni, e che avevano bisogno di essere sostenuti.

La proprietà delle fotografie dei commissionati era dell’agenzia?

No, io non ho mai avuto una foto di proprietà. Lo dico con orgoglio: la proprietà delle foto è sempre stata e rimasta dei fotografi; anche dopo dieci anni venivano riconosciute le royalties sulle vendite. Anche aspetto ha contribuito a creare un legame forte con l’agenzia.

Nell’ambito dei lavori legati alla fotografia, quello del photo editor è piuttosto celebre, ma oggi ha ancora spazio?

Sfortunatamente ne ha ormai poco. Il photo editor è un mestiere meraviglioso, ma su cui viene caricato troppo lavoro: oggi dovrebbe commissionare i servizi, e quindi investire tempo nel rapporto con i fotografi, fare ricerca sulle foto d’archivio presso le diverse banche dati online, che è un lavoro molto lungo; inoltre, partecipare ai festival e agli eventi del mondo della fotografia (cosa che spesso è costretto a fare a proprie spese) e visitare le mostre, per essere sempre aggiornato. Ma spesso, quando le mostre inaugurano, i photo editor sono ancora in ufficio… Prima dell’avvento del digitale era un lavoro ammaliante, ora il rapporto con i fotografi si sta riducendo, siamo nel mezzo di una profonda crisi editoriale. Molte cose sono cambiate.

Mi ritrovo perfettamente in questo quadro, è quel vivo sulla mia pelle tutti i giorni…

Aggiungiamo ancora che sovente se ne svaluta la figura, facendo fare le scelte editoriali sulle immagini ad altri, dai direttori agli editor, che hanno meno competenza sulla fotografia. E spesso i risultati si vedono…

Oggi c’è un’offerta pazzesca di foto, ma questo paradossalmente può portare a vedere sempre le stesse immagini, come mai?

Quando cerchiamo un’immagine, spesso abbiamo già in mente quella che vorremmo, perché l’abbiamo vista molte volte e inconsciamente cerchiamo quella. Se poi, grazie alle banche dati fotografiche digitali, veniamo sommersi da migliaia di immagini che potrebbero soddisfare la nostra ricerca, non abbiamo il tempo di passarle in rassegna, e, in assenza di un filtro che selezioni per me le più utili al mio scopo – questo era un altro dei compiti dell’agenzia –, sceglieremo inevitabilmente la banale immagine che avevamo già in mente. La troppa abbondanza dell’offerta determina la povertà della comunicazione.

L’agenzia è stata chiusa nel 2009: se lei si guarda indietro oggi, c’è qualcosa che si rimprovera?

Io avevo 75 anni, non ero stanca, ma questo ulteriore cambiamento del mercato mi aveva, per così dire, consumato. L’impatto delle nuove tecnologie, che richiedevano investimenti molto alti, e l’irruzione delle grandi banche dati americane come Getty e Corbis ha cambiato profondamente il mercato: si poteva continuare vivacchiando, con poche persone, magari vendendo solo le foto di Anne Leibovitz e poche altre star, ma non era più possibile mantenere la qualità e il tipo di servizi che avevamo sempre garantito. Non sarebbe più stata la Grazia Neri.