Un uomo impeccabilmente vestito ci si para davanti, domina il nostro campo visivo, mentre con un gesto plastico alza l’indice della mano sinistra verso l’alto e il suo completo nero spicca sui muri bianchi alle sue spalle, su cui sono appese delle fotografie. Ma quel corpo disteso sul pavimento lì accanto? E la pistola nella mano destra? Che cosa stiamo vedendo?
È la foto dell’anno; il suo autore, il reporter turco Burhan Ozbilici, fotografo affiliato a una delle più prestigiose agenzie fotografiche internazionali, l’Associated Press, si è aggiudicato con questa immagine il World Press Photo (WPP) del 2017, vale a dire l’oscar del fotogiornalismo, il premio fotografico più celebre e prestigioso.
Nato nel 1955 ad Amsterdam per volontà di alcuni reporter olandesi con lo scopo di promuovere la libertà d’informazione e favorire lo sviluppo di un fotogiornalismo di qualità, viene assegnato da una giuria cui sono chiamati a far parte grandi fotografi, editor, giornalisti ed esperti accreditati a livello internazionale nel campo della fotografia; per darvi un’idea della reputazione guadagnata nel corso degli anni, considerate che al concorso per il 2017 sono state inviate 80.408 immagini, scattate da 5.034 fotografi di 125 paesi diversi. Il WPP assegna i suoi riconoscimenti in diverse categorie di immagini, dall’attualità allo sport, dai progetti di reportage a lungo termine, sviluppati nel corso di anni, alla fotografia naturalistica, ma il premio principe è quello che incorona la foto dell’anno.
Ma perché il premio quest’anno è andato allo scatto di Ozbilici?
Certamente vi si intrecciano diversi temi caldi dell’attualità internazionale: la situazione della Turchia di Erdogan dopo la dura repressione seguita al tentato colpo di Stato del luglio 2016, le difficili relazioni fra Turchia e Russia, il continuo riverbero su di esse degli avvenimenti che via via si susseguono nel drammatico conflitto siriano (Ozbilici era appena rientrato da un reportage ad Aleppo…), la rivendicazione terroristica e l’urlo “Allah akbar!” da parte dell’omicida.
Ma questa foto si impone innanzi tutto per la sua struttura formale: l’assassino è quasi al centro della scena, le sue braccia e gambe aperte formano una grande X che occupa quasi completamente l’inquadratura, sulla destra della quale vediamo solo in un secondo tempo il corpo abbandonato a terra. Tutto è di una chiarezza sorprendente, allucinata: il contrasto tra il bianco delle pareti e del pavimento e il nero dell’abito, la luminosità intensa e uniforme che ci spiattella sotto gli occhi ogni particolare della scena, il gesto plastico, cinematografico dell’uomo. Siamo in una galleria d’arte ad Ankara, all’inaugurazione di una mostra sulla Kamchatka alla presenza dell’ambasciatore russo, ragione per cui era stato allestito un set che consentisse delle buone riprese fotografiche e video: è questo set che il fotografo si trova a sfruttare, nel momento in cui – con ammirevole prontezza e sangue freddo, propri di chi è abituato a stare al fronte e a convivere con il pericolo – scatta ripetutamente quanto sta accadendo sotto i suoi occhi, ed è proprio questa messinscena professionale, casualmente allestita per un altro scopo, che “buca” e ci colpisce, perché fa leva, inconsciamente e quindi ancor più efficacemente, sulla nostra esperienza di visione. Siamo programmati per riconoscere nelle immagini che vediamo per la prima volta cose che già sappiamo, ascoltiamo nelle apparenze echi di esperienze pregresse, cercando nell’inedito il già noto, anche senza saperlo: è questa la sorgente nascosta che fa dell’immagine una “icona”, l’immagine per eccellenza.
Questo scatto ha anche un’ulteriore caratteristica dell’icona: l’asciutta essenzialità che ha eliminato riflessi, ombre e dettagli; niente disturba la visione, con la sola eccezione degli occhiali dell’ambasciatore assassinato, che si vedono ai bordi più lontani dell’immagine, dietro la gamba destra del killer all’altezza della canna della pistola. Sono finiti laggiù per il contraccolpo della caduta del corpo: se ci pensiamo è un dettaglio terribile, che spiega la repentinità cruenta di quel che è appena successo. Man mano riconosciamo altri particolari: la suola consumata della scarpa dell’ambasciatore in primo piano, il lembo irrigidito della sua cravatta; dati di quotidianità che risuonano più forti dell’urlo dell’assassino che, congelato dalla fissità dell’istantanea, resta muto.
Se riflettiamo c’è qualcosa che incredibilmente manca: il sangue; tutto resta immacolato, la scena del crimine asettica. Anche questo elemento accentua l’iconicità della foto e contribuisce a conferirle un magnetismo particolare: non è un’immagine emotiva che suscita vibrazioni, bypassa i nostri sentimenti e agisce su un piano differente. È troppo simile a quel che siamo abituati a vedere per non toccarci visceralmente e, per lo stesso motivo, è talmente vera da sembrare artefatta e da impedire di farsi afferrare totalmente: ci attrae e ci respinge, ci tiene in sospeso.
Forse è proprio questo il compito delle immagini oggi: aiutarci a non credere loro troppo facilmente.