In questi ultimi anni, parallelamente all’aumento dei migranti provenienti da aree di instabilità economica e politica, il dibattito pubblico italiano ha visto emergere uno slogan apparentemente incontestabile: “aiutiamoli a casa loro”. Sulle prime, devo ammettere, la reazione a questo richiamo è stata di un certo fastidio, perché avvertivo una sorta di “invasione” nel campo della cooperazione internazionale da parte di soggetti che in realtà apparivano poco interessati alle sorti delle persone che nel frattempo annegavano nel Mare Mediterraneo. Al di là delle strumentalizzazioni politiche, però, questo slogan semplice e rassicurante interroga per primi proprio coloro che, come Mani Tese, da decenni stanno lavorando sul territorio africano per rafforzare le società locali. Lasciamo dunque da parte chi usa la retorica dell’ “aiutiamoli a casa loro” come scusa per rifiutare l’accoglienza ai migranti ma che in realtà non ha mai fatto nulla per aiutare nessuno, e proviamo a chiederci cosa vuol dire veramente “aiutarli a casa loro”.
Innazitutto le persone che, quando va bene, arrivano in Europa dall’Africa non sono vittime di un oscuro fato per il quale dovrebbero essere aiutate, ma subiscono ingiustizie politiche, economiche, ambientali, alle quali pensano di poter dare risposta allontanandosi dalla regione di origine. Intervenire alla radice della questione significa dunque porsi il problema delle ingiustizie di cui i migranti sono vittime. In Nigeria, secondo paese africano per provenienza dei richiedenti asilo nel 2015, da decenni le imprese europee e americane di estrazione del petrolio stanno danneggiando in modo irreparabile la regione del delta del fiume Niger, un’area grande tre volte la Lombardia. Non è certo l’unica ragione per cui i Nigeriani lasciano il loro paese, ma continuare a tenere separate la questione delle politiche migratorie e quella dello sfruttamento insostenibile delle risorse naturali, è sbagliato e un po’ ipocrita. Una maggiore responsabilità da parte delle imprese, anche italiane, che agiscono nel continente africano potrebbe certo aiutare.
Più in generale, occorre valutare la coerenza tra le politiche economiche europee e la dichiarata volontà di favorire lo sviluppo delle economie africane. Negli ultimi anni l’Unione Europea ha spinto affinché si firmassero accordi di libero scambio che espongono le nascenti industrie africane a una concorrenza che difficilmente potranno sopportare. Le difficoltà delle imprese africane si tradurranno in minori possibilità di lavoro e dunque, probabilmente, in nuove migrazioni. “Aiutarli a casa loro” vorrebbe dunque dire ridiscutere queste politiche in un senso più equo, che tenga conto della storia di sfruttamento che questi territori hanno subito, soprattutto da parte degli Stati europei.
Ancora più concretamente, però, “aiutarli a casa loro” significa sostenere gli sforzi delle società africane di promuovere uno sviluppo locale. Noi di Mani Tese stiamo cercando di farlo dal 1964 in modo molto pratico, sostenendo le cooperative di donne a Toucountouna, nel Nord del Benin, gli orticoltori alla periferia di Ouagadougou, in Burkina Faso, o gli avicoltori a Gabù, al confine tra Guinea Bissau e Senegal. Il caso di Gabù è particolarmente interessante perché è una zona di passaggio di migranti diretti verso il Nord Africa e poi in Europa. In questa zona Mani Tese ha recentemente avviato un progetto che vuole, da una parte, informare correttamente le persone sui rischi del viaggio verso l’Europa e, dall’altra, sostenere progetti economici locali. E’ possibile seguire gli sviluppi del progetto seguendo l’hastag #AiutaliANonFuggire sul sito e sui canali social di Mani Tese.
Evitiamo malintesi, però. Sostenere gli sforzi delle comunità per costruirsi un futuro non significa bloccare le legittime aspirazioni di ognuno a cercare la propria strada, anche fuori dal proprio Paese. La cooperazione internazionale si fonda su una visione cosmopolita dell’umanità dove tutte le persone hanno uguale diritto alla felicità. Aiutare le persone a non fuggire, a non rischiare la propria vita in viaggi pericolosi non significa impedirne i movimenti e qualsiasi tentativo di usare strumentalmente la cooperazione internazionale per “tenerli a casa loro” ne svilisce gli ideali, rovesciandone il senso più profondo.
Vogliamo aiutare? Diamo a tutti le stesse opportunità. Diamo a tutti gli stessi diritti.