“Che belle che sono! E… come si chiamano?“.
Puntualmente, dopo la risposta con i nomi delle mie figlie, quante volte mi sono sentita domandare con la faccia stupita e il sorriso di circostanza: “Ah, ma avete tenuto i loro nomi di origine? Come mai?”.
È una domanda apparentemente semplice e neutra ma che contiene in filigrana una visione del mondo adottivo basata su una prospettiva adultocentrica, ovvero che mette al centro le esigenze degli adulti e non quelle del bambino. Il concetto fondante alla base dell’adozione, la sua ragione d’essere, è dare una famiglia a un bambino che non ce l’ha e non il contrario. È il bambino il centro e il motore di tutto, e il suo diritto a crescere tra le cure, le attenzioni e, soprattutto l’amore di una famiglia. Il bambino che arriva in adozione ha poche cose con sé, anzi spesso non ha proprio nulla, ma una cosa è sempre presente, in ogni caso: il nome.
Il nome rappresenta quello che il bambino è stato fino a quel momento, è la sua identità, la sua storia, e se il bimbo arriva da un Paese straniero racconta della sua origine e della sua cultura e questo vale naturalmente anche per i neonati. Senza nome non si esiste. Per il bambino adottato internazionalmente spesso, negli anni successivi all’arrivo, diventa l’unico legame linguistico con il paese d’origine, dato che il ricordo della lingua di nascita scompare rapidamente ed inevitabilmente.
Sostituendo del tutto il nome, che tipo di messaggio comunicheremmo al bambino rispetto al suo passato? Come potrebbe integrare la parte della sua vita precedente all’adozione se noi genitori, che siamo chiamati ad accompagnarlo per il resto della vita in questo difficile compito, siamo i primi a cancellare una parte del passato sostituendo il nome? Come faremmo in questo modo a trasmettergli il rispetto e l’orgoglio per la sua terra d’origine?
La questione del nome sembra un dettaglio ma, nel caso dell’adozione, è molto delicata e non va affrontata con leggerezza perché è uno dei preziosi mattoncini con cui il bambino costruirà le basi della sua identità. La sfida dell’adozione è proprio questo, d’altronde: riuscire a integrare passato e presente. Questi bambini diventeranno un domani adulti consapevoli e sereni se sapranno dare un senso alla propria storia e costruirsi un’identità e una visione di sé che abbracci la diversità valorizzandola e non negandola.
Discorso a parte se i genitori hanno dei motivi veramente validi per voler modificare il nome al bambino, per esempio nei casi in cui il nome sia effettivamente impronunciabile o motivo di difficoltà o derisione per il bambino nel nostro Paese. Esclusivamente per casi eccezionali e debitamente motivati, la legge italiana, con il DPR n. 396 del 3 novembre 2000 recante il “Regolamento per la revisione e semplificazione dell’ordinamento dello stato civile,” permette il cambio del nome dopo attenta valutazione della domanda da parte del prefetto.
Altri genitori decidono comunque di attribuire al bambino adottato un nome scelto da loro. I motivi possono essere i più vari: il desiderio di continuare una tradizione familiare, oppure la voglia di compiere un atto d’amore donando un nome che si considera speciale al tanto desiderato figlio. Tutte motivazioni umanamente comprensibili. In questo caso la cosa più corretta sarebbe eventualmente affiancare come secondo nome il nome scelto al nome d’origine.