Fondazione Prada osserva dall’alto (Milano e non solo)

La Fondazione Prada raddoppia: dopo l’apertura a maggio 2015 del complesso di Largo Isarco, progettato dallo studio OMA dell’archistar Rem Koolhaas, è stato inaugurato negli ultimi giorni di dicembre il nuovo spazio, chiamato “Osservatorio”.

Da una zona decentrata e post-industriale si passa ora al cuore di Milano, la Galleria Vittorio Emanuele: è qui, al 5° e 6° piano di uno degli edifici centrali contigui all’ottagono, che si trova la nuova, vasta superficie espositiva articolata su due livelli, oggi restituita alla città dopo un lungo lavoro di restauro e ristrutturazione avviato nel 2011, quando Prada si aggiudica il bando comunale relativo all’immobile.

Non si tratta di un doppione della prima sede, ma di un luogo con una vocazione differente: dedicarsi alla fotografia contemporanea, consapevoli che è l’immagine fotografica il crocevia fondamentale per cui transitano e dove si intrecciano i diversi linguaggi dei nostri giorni, web, social media, piattaforme di condivisione, app, video, eccetera. Ma dire linguaggi forse non rende l’idea, perché le immagini oggi sono onnipresenti e pervasive in un modo sconosciuto a qualunque generazione prima di noi, nutrono la nostra quotidianità, danno forma – anche se spesso ne siamo inconsapevoli – a quello che proviamo e sentiamo, plasmano le emozioni e i desideri, incarnano modelli di comportamento, suggeriscono sogni, particolarmente ai giovani e giovanissimi millennials e nativi digitali.

Per questo l’Osservatorio, con una scelta felice, inaugura con una mostra, Give me yesterday, che presenta i lavori non di fotografi affermati, ma per lo più di giovani, interpreti di questo nuovo rapporto affettivo e complice con la fotografia, vissuta come protesi di sé, mezzo di appropriazione del mondo, utilizzato per far diventare la realtà la propria realtà.

 I Really Needed It, 2008-2016. Immagine della mostra “Give Me Yesterday”, Fondazione Prada Osservatorio Credito fotografico: © Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti / Courtesy Fondazione Prada

Ryan McGinley, da sinistra a destra: Jake (Floor), 2004, Tim Falling, 2003, Dakota (Hair), 2004. Immagine della mostra “Give Me Yesterday”, Fondazione Prada Osservatorio Credito fotografico: © Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti / Courtesy Fondazione Prada

Ma il visitatore, prima di immergersi nella mostra le cui foto sono disposte sulla sinistra, può godere, grazie alle grandi vetrate a tutta parete a destra, di una vista spettacolare sulla cupola in vetro e ferro costruita da Giuseppe Mengoni (1865-67), sulle persone che percorrono la passeggiata tra i tetti della galleria e su quelli del resto della città: in questi giorni freddi, spazzati dal vento, una luce limpida ci offre l’occasione di indugiare sul frastagliato skyline di Milano e di lasciare poi spaziare man mano lo sguardo fino alla distante barriera delle Alpi, perdendosi nelle lontananze del cielo di Lombardia.

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Melanie Bonajo, Thank You for Hurting Me I Really Needed It, 2008-2016. Immagine della mostra “Give Me Yesterday”, Fondazione Prada Osservatorio

Tornando all’interno dell’Osservatorio, i quattordici artisti fotografi – ormai, lo sappiamo, la fotografia è una florida provincia all’interno della grande regione delle arti visive – ci presentano i loro diari fotografici 2.0: vediamo gli amici di Ryan McGinley (americano, il più famoso del gruppo) in scatti apparentemente di getto, non pensati, che catturano il movimento, la casualità, banali attimi quotidiani attraverso immagini che si rivelano capaci di tenerci lì, con gli occhi incollati, perché frutto di una struttura salda e imprevedibilmente armoniosa; osserviamo la madre di Leigh Ledare, pure lui statunitense, raffigurata nuda in mise sexy o mentre si rifà l’acconciatura o in momenti meditativi: questa irruzione sconcertante del figlio nella sfera intima della madre, in contrasto con i tabù del rapporto familiare, ci racconta Tina non come mamma ma donna, con le sue fragilità e i suoi pregi, i suoi desideri e le sue particolarità. Ma il diario può anche affidarsi a qualcosa fuori da sé: gli oggetti e gli abiti riordinati dalla madre dell’olandese Maurice van Es, che si dispongono in luminose immagini monumentali, evocando un ambiente familiare ordinato, rassicurante e affidabile, che parla di colei che se ne prende cura; o le persone con le quali creiamo dei legami, raffigurate dall’italiana Irene Fenara con polaroid su cui riporta la distanza del soggetto dalla macchina al momento dello scatto, una misura variabile a seconda del suo rapporto con la persona, che dà visibilità spaziale ai legami emotivi, con una soluzione semplice e raffinata allo stesso tempo.

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Tomé Duarte, Camera Woman, 2015. Immagine della mostra “Give Me Yesterday”, Fondazione Prada Osservatorio Credito fotografico: © Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti / Courtesy Fondazione Prada

Il portoghese Tomé Duarte, improbabilmente vestito da donna con tanto di parrucca e barba, si riprende nella propria casa interpretando la ex fidanzata, esorcizzando così con una coinvolgente ironia il proprio dolore. Siamo a metà tra fotografia e performance, il che ci aiuta a mettere a fuoco un elemento ricorrente in questi lavori: la quotidianità non viene descritta con delle istantanee, tranches de vie colte al volo, ma viene ideata e organizzata come una scenografia, oggetto di un potenziale sguardo in funzione del quale la realtà viene costruita e messa in scena.

Questo venir meno del confine tra il privato e il pubblico ha una conseguenza importante, come spiega il curatore Francesco Zanot: “il diario spontaneo e naturale, paradossalmente, non è più credibile”, questi artisti sentono la necessità di rappresentarsi secondo dei codici e delle convenzioni comuni in primis alla propria generazione, perché solo così, sembrano dirci, si può oggi essere (o tentare di essere) sé stessi. Tra i lavori in mostra, l’esempio più bello di questa attitudine è secondo me il blog su Tumbir della giovanissima giapponese Izumi Miyazaki (Tokyo 1994): le sue immagini, frutto di un’abilissima tecnica digitale, la mostrano in situazioni via via surreali, ironiche, improbabili, malinconiche, buffe, oniriche in una metamorfosi continua, dove spesso Izumi si raddoppia o si moltiplica nelle inquadrature, quasi sempre mantenendo una straordinaria eleganza al servizio di uno sguardo capace di suscitare sorrisi, stupore e incanto. È la via giapponese all’espressione del terzo Millennio, nella quale siamo chiamati a recitare la parte, sempre mutevole, di noi stessi.