Un giorno di molti anni fa, il capo del personale della mia azienda mi chiese di non chiudere la porta della nostra sala riunione: “Non vorrei che pensassero male”, disse con un sorrisetto. Pur essendo ancora molto giovane, qualcosa in quella frase, in quel modo di dirla e in quel comportamento mi suonò stortissima. Non me ne rendevo conto, ma mi stava “discriminando”.
Dieci anni più tardi il mio capo, amministratore delegato di una banca, aveva l’abitudine di andare a pranzo fuori con i suoi collaboratori uomini ma non con me, perché “qualcuno poteva pensare male”. Sapevo quanto valevano quei pranzi in termini di carriera, e a quel punto avevo chiarissimo che il fatto di essere donna mi stava tagliando fuori da alcune opportunità di crescere professionalmente.
Mi sorprende che non si sia scritto di più su questo tema: lavoro da 20 anni e ho avuto problemi relazionali – o, per meglio dire, relazioni dai confini sempre troppo sfumati – con uomini che avrebbero dovuto essere solo i miei capi, i miei colleghi, i miei clienti, i miei soci. Sono in buona compagnia: nel 2015 nel Parlamento inglese ci fu un piccolo scandalo per alcune regole non scritte ma apparentemente ben chiare a tutti, che vietavano alle donne dello staff di trovarsi da sole con un deputato in un ufficio, in un’automobile o anche in occasioni di eventi fuori sede. Questo per “rispetto della sensibilità delle mogli dei deputati e per proteggere questi ultimi da accuse di sexual harrasment”.
Non è un caso che due terzi dei senior executive coinvolti in un sondaggio citato ieri in un articolo di Quartz, ammetteva di non voler fare da mentore a una donna per non incorrere nel sospetto che vi fosse una relazione sessuale. Diventano così milioni le donne nel mondo che, “a causa dell’impossibilità di accedere ad una relazione professionale con chi detiene il potere, vengono marginalizzate ed escluse da possibilità di carriera”. Nessuno può obiettare al fatto che gli ormoni scorrano ancora impetuosi nei nostri cervelli, condizionando molti dei nostri comportamenti. Se, per esempio, le donne piangono più facilmente e di più, possiamo ringraziare la prolattina; mentre la tendenza maschile al controllo e alla competizione viene nutrita dal testosterone. Ciò detto, argomentano giustamente i due giornalisti di Quartz, forse gli uomini potrebbero cercare di non fare finta che i propri istinti di accoppiamento non esistano, ma riconoscerli come tali e controllarli. Tanto basterebbe a ridurre una fonte di discriminazione di genere oggi ancora potentissima: che affligge non solo le donne giovani e belle, ma anche tutte noi che siamo ben più modeste, ma evidentemente ancora qualificabili come prede… nonostante l’età matura.