Sparire (almeno apparentemente) dalla rete è, dal 2014, un diritto per tutti i cittadini dell’Unione europea. Eppure, nonostante le sentenze favorevoli, ottenere l’applicazione del cosiddetto diritto all’oblio sembra essere tutt’altro che facile. Lo dimostra la tragica vicenda di Tiziana Cantone, la giovane morta suicida lo scorso settembre dopo che alcuni video hard che la vedevano protagonista erano stati diffusi in rete e sui social network.
Delle implicazioni per il diritto e per l’informazione di questa tragica vicenda si è parlato nell’incontro “Memento. Il diritto all’oblio tra legge e tecnologia”, organizzato martedì 13 dicembre da Law – Leadership alliance for woman. Si tratta di un gruppo di lavoro nato tra le avvocate dello studio DLA Piper che si propone di promuovere i talenti femminili e di discutere dei problemi di genere anche a partire dall’attualità, come nel caso del diritto all’oblio non riconosciuto a Tiziana Cantone.
La giovane, nel luglio 2015, si era infatti rivolta al giudice civile di Aversa per chiedere la rimozione dei video da siti e motori di ricerca. In altre parole, Tiziana aveva chiesto che le fosse riconosciuto il diritto all’oblio visto che i video e le notizie che la riguardavano non rispondevano ad alcun interesse pubblico. Una richiesta negata, almeno in parte, dalla sentenza di primo grado.
Il motivo? Gli avvocati di Tiziana avevano sbagliato a citare i social network “imputati” e non avevano indicato tutti i link dei contenuti incriminati. “Molti ignorano – rivela Chiara Garofali, senior legal counsel di Google – che i motori di ricerca e anche i social network non producono contenuti ma si limitano ad aggregarli e, nel caso dei motori di ricerca, indicizzarli. Questi soggetti non conoscono perciò tutte le notizie presenti in rete e hanno bisogno che il diretto interessato fornisca loro tutti gli indirizzi (le url) dei contenuti da eliminare”.
Inoltre, i motori di ricerca e social network, per la legge sull’obbligo di non sorveglianza, non possono agire se non per ordine di un giudice. Si tratta di una norma molto discussa perfino a livello europeo perché, sebbene sia nata per limitare il potere di questi soggetti, ha finito per deresponsabilizzarli. “Andrebbe perlomeno rivista – spiega Morena Menegatti, giornalista, Girl geek dinners Milano e IstagramersItalia – perché avere un grande potere sulla vita delle persone significa già di per sé non essere neutrali o indifferenti al passaggio di informazioni e dati”.
Come garantire, quindi, che non ci saranno altre persone umiliate dalla rete al punto di scegliere il suicidio? Secondo Manuela Galietti, responsabile affari legali area radio del Gruppo editoriale L’Espresso – “è fondamentale un intervento tempestivo dei diretti interessati e dei loro avvocati. Inoltre sarebbe importante una vera educazione digitale. Cliccare ‘pubblica’ su un post o su una foto ha conseguenze che ancora non riusciamo a calcolare bene”.
Eppure gli effetti di questo ritardo nell’uso consapevole di internet si fanno già sentire. Secondo il Transparency report che Google pubblica ogni sei mesi, l’Italia è infatti il quinto Paese in Europa per richieste di deindicizzazione che riguardano soprattutto contenuti pubblicati sui social network, Facebook in testa. Dati che fanno pensare e che chiamano in causa anche l’informazione italiana.
Le notizie e le parodie che – oltre ai video – hanno spinto Tiziana al suicidio avevano ricevuto una spinta non indifferente proprio da giornali e siti di informazione online. Molti di loro, non capendo la gravità della notizia, avevano ingigantito l’eco mediatica della vicenda.
Incoscienza o errore? L’informazione tradizionale incontra ancora difficoltà nella gestione e nella comprensione della rete e dei social media. E rischiano così di crearsi altri casi come quello di Tiziana Cantone.