Avevano cominciato i francesi negli anni ottanta con il film tre uomini e una culla, godibile commedia che racconta della metamorfosi di tre scapoli impenitenti in amorevoli genitori di una piccola bambina. In quegli stessi anni negli Stati Uniti i padri a casa per prendersi cura dei figli erano oltre un milione. Oggi, secondo Pew Research Center, sono almeno raddoppiati. Le famiglie dad-at-home sarebbero il 4% delle famiglie americane, stando al Journal of Marriage and Family. Numeri ancora contenuti, ma che probabilmente pesano più di quanto non sarebbe lecito aspettarsi. Non più tardi di otto mesi fa, infatti, la Lego aveva lanciato fra i suoi personaggi una rappresentazione di “nuova famiglia”: padre hipster armato di biberon e carrozzina con bebè e madre in tailleur e valigetta portadocumenti.
In Italia pare che non esistano studi sul fenomeno, ma questo non significa che non esista. Spulciando la rete ogni tanto si incappa in racconti di famiglie caratterizzate dalla presenza di padri a casa per prendersi cura dei figli. Da queste testimonianze emergono due moventi principali. Il primo è la volontà di garantire una presenza famigliare ai figli, nei loro primi anni, e dopo per seguirli negli studi e nelle altre attività. Il secondo è il pragmatismo: i soldi spesi per scuole e tate sono molti e allora chi ha lo stipendio più basso sta a casa, oppure se può sceglie il part time. Nulla di strano, sono dinamiche più che note e il fatto che riguardino anche alcuni uomini ha di eccezionale solo che le retribuzioni delle donne stanno finalmente crescendo.
Sempre il Journal of Marriage and Family dedica un ampio studio al fenomeno nel numero di ottobre, facendo un importante distinguo metodologico. Le famiglie dad-at-home sono diverse da quelle in cui il padre è a casa perché ha perso il lavoro, unable-to-work stay-at-home father families (sic). Queste ultime sono il frutto amaro della disoccupazione, mentre le altre sono risultato di scelta, seppure economicamente motivata. A volere essere franchi, il modello dad-at-home non è virtuoso in se’ perché evidenzia comunque una difficoltà del nucleo famigliare a gestire lavoro e famiglia, mantenendosi in equilibrio finanziariamente. Però è un sintomo di cambiamento verso una maggiore uguaglianza di genere e di una sensibilità maschile in rapido mutamento.
Conosco bene alcuni padri – pochi certamente – che sono i principali caregiver perché svolgono professioni freelance o che contemplano impegni ampiamente onorabili da casa: un musicista, un giornalista, un architetto. Vero è che conosco molte più madri a casa. Poi molti nonne o nonni, se vivono nella stessa città dei nipoti, ma questa è un’altra storia. Io stesso, anni fa, ho combinato un eccesso di ferie arretrate con l’abbandono di una tata e ho fatto la mia esperienza di dad-at-home per una decina di giorni. Come è andata? Splendidamente, ma non rientro in un campione attendibile, era una situazione pro tempore e quindi l’ho vissuta con l’entusiasmo di una vacanza.
Pare che non si possa dire lo stesso dei dad-at-home a tempo pieno. Gli strali sociali della loro scelta sono ancora pesanti, i ricercatori del Journal of Mariage and Family riportano con chiarezza che elementi di maggior disagio sono la perdita di posizione sociale e l’etichetta di “falliti o strambi”. Non a caso, sempre negli Usa, alcuni di loro si sono riuniti in associazione, la National At-Home Dad Network, per fare cultura e informazione su un modello famigliare e una scelta umana che, scommettono loro, diventeranno sempre più popolari nei prossimi anni. In Italia siamo pronti?