Ognuno di noi conserva nel cuore dei momenti, degli aneddoti dell’infanzia che ci sono stati tramandati negli anni e che fanno parte del nostro essere. Alcuni di questi episodi diventano dei veri e propri miti e parte integrante delle storie di famiglia, quelle che si rievocano attorno alle tavolate di Natale strappando sempre un sorriso: le parole divertenti che dicevamo da bambini, la marachella combinata a casa della zia, lo scherzo fatto al fratello…
Quei ricordi i nostri genitori e familiari li hanno alimentati per noi, tenendoli vivi negli anni, e li hanno catalogati e conservati nei voluminosi, e a volte imbarazzanti (soprattutto per chi come me è cresciuto tra gli anni Settanta e gli Ottanta con quei completini dai colori e dai materiali improponibili), album di famiglia!
I bambini che arrivano in adozione in Italia hanno un’età media di circa 6 anni, stando ai dati ufficiali (gli ultimi pubblicati ufficialmente dalla Commissione Adozioni Internazionali relativi alle adozioni concluse nel 2013 parlavano di 5,5 anni). Un bambino di quell’età ha già fatto un bel pezzettino di strada. Un pezzetto importante. In cui noi genitori adottivi non c’eravamo.
Quando le mie figlie sono arrivate in Italia dall’Africa avevano 7 e 4 anni, pochi documenti scritti, nessuna traccia materiale del passato, ma un ricco vissuto, pieno di persone, luoghi, odori, nomi, emozioni, suoni. Di alcuni di questi abbiamo fatto una, seppur breve, esperienza anche noi nei viaggi nel loro Paese di Origine durante la procedura adottiva. E di questo ringrazio Dio ogni giorno…
Nelle famiglie adottive la memoria segue percorsi alternativi, in un flusso contrario di trasmissione della memoria dal bambino all’adulto. Nei primi periodi insieme ci hanno affidato i loro racconti, i loro ricordi. Molti all’inizio solo mimati, a causa della differenza linguistica, e che spero di aver saputo interpretare nel modo giusto. Un tesoro prezioso che abbiamo cercato di custodire con la massima cura: nomi, persone, aneddoti. Tante cose le abbiamo scritte, come ci era stato provvidenzialmente suggerito nei corsi di preparazione all’adozione, per non dimenticarle e per potergliele restituire in futuro quando le avrebbero dimenticate.
Oggi, dopo cinque anni dal loro arrivo, tante informazioni in effetti sembrano essere completamente sparite dalla loro memoria. La lingua d’origine è stata la prima. E, paradossalmente, mi ritrovo oggi ad essere io la custode di qualche decina di vocaboli che ero riuscita a memorizzare: “Mamma, come si dice questa parola in amarico?”. Questa cosa è tragicomica: da un lato mi fa sorridere (penso anche solo alla mia pronuncia maccheronica), ma dall’altro mi rattrista profondamente, perché è come se loro, fiduciose come solo i bambini sanno essere, si aspettassero e dessero per scontato che io debba saperlo. Ma l’unica verità è che non lo so.
Oppure mi guardano in cerca di conferma quando tentano di ricordare qualcosa, come se ci fossi davvero stata anch’io all’epoca. Il senso di impotenza è grande, ma mi fa sentire ancora più forte la preziosità di quei primi ricordi che ci hanno donato con tanta spontaneità, ma forse anche con l’inconscia consapevolezza che li avremmo gelosamente custoditi e tenuti vivi. Perché anche questo è il nostro compito di genitori: ricordare loro chi sono e da dove vengono.