Dall’altra notte, da quando ho sentito la stessa Virginia Raggi definire un fatto storico la sua elezione come prima donna sindaco della Capitale, ho dovuto reprimere un piccolo moto di fastidio. Non è colpa sua, ovviamente e, anzi, forse dipende anche dal fatto che considero il fatto totalmente neutro. Intendiamoci, non che la cosa non sia bella, non che non sia un fatto positivo, non che non possa rappresentare un piccolo passo avanti nella progressiva conquista di posti di responsabilità da parte delle donne. Ma il genere, con la campagna elettorale che ha preceduto queste amministrative, ha poco o nulla a che fare.
Tanto il voto romano, quanto quello torinese sono stati essenzialmente orientati sull’asse conservazione/cambiamento. In questo senso forse l’essere donne di Virginia Raggi e di Chiara Appendino, candidata in una città che pure ebbe una sindaca alla fine degli anni ’80, potrebbe aver rappresentato un piccolo vantaggio, ma nulla più.
Se dovessi dare una valutazione complessiva su questo voto, direi che il tentativo dei cittadini italiani è stato quello di rompere assetti di potere consolidati: è avvenuto a Roma, a Torino, a Varese, dove dopo 23 anni di Lega ha vinto il candidato PD, a San Giuliano Milanese, dove il primo cittadino è del centrodestra dopo 70 anni di sinistra, a Latina, dove ha vinto “Latina bene comune”, sconfiggendo il PD al primo turno e la destra che governava dal ’93 al secondo.
E quando si tratta di rompere gli assetti di potere, poco conta il genere. In Italia ne abbiamo un esempio lampante: quando nel 2005 si trattò di scegliere alle primarie per la presidenza della Regione Puglia tra Francesco Boccia, espressione del PD (e del plenipotenziario locale, Massimo D’Alema), e Nichi Vendola, gli elettori di centrosinistra scelsero Vendola. Quando poi si trattò di scegliere alle urne tra Raffaele Fitto, per certi versi rappresentante degli stessi assetti di potere, e Nichi Vendola, i cittadini pugliesi scelsero l’omosessuale dichiarato Vendola, seppure con un margine piuttosto stretto. Forse uno dei voti più inaspettati del recente passato italiano e la dimostrazione, per quanto parziale, che nelle urne le questioni di genere e diversity contano relativamente poco.
In questo ragionamento manca qualcosa, me ne rendo conto.
E’ qualcosa di cui avevo parlato qua, un dovere civico aggiuntivo che a mio giudizio ricade su ogni donna che ascenda a posizioni di responsabilità politica o aziendale, il dovere dell’esempio. Al di fuori dei nostri circoletti che tendiamo a considerare culturalmente avanzati (e forse su questo lo sono) ci sono centinaia di migliaia di donne convinte che sia loro preciso dovere farsi carico del lavoro di cura della casa, dei figli, dei genitori o parenti anziani e dei mariti e compagni; specularmente ci sono centinaia di migliaia di uomini che ritengono questo fatto perfettamente normale, perché nel solco di una tradizione. Una tradizione che va abbattuta con la ruspa, incenerita con il lanciafiamme, aperta come una scatoletta di tonno, per usare qualche recente metafora politica. Chiara Appendino, quella laureata alla Bocconi che alcuni quotidiani presentano ancora come la “neomamma” dimostrando più di qualche pregiudizio, e Virginia Raggi, l’avvocata che un grande quotidiano ha chiamato in un titolo (pur tra virgolette) “’a moretta”, hanno l’occasione di utilizzare l’apriscatole, tanto pubblicamente, quanto all’interno di strutture burocratiche, quelle della pubblica amministrazione, spesso profondamente maschiliste.
Le aspettiamo al varco