Un secondo. L’ultimo “Ti voglio bene”.

2:06 a.m.

Un messaggio, mi ha svegliato. Chi è che manda sms a quest’ora? Nel buio, lo schermo illuminato è l’unica cosa che si vede. Allungo la mano.

Mamma, ti voglio bene.

Eddie, ecco perché era acceso. Lo lascio sempre acceso quando lui è fuori. Ma non scrive mai che mi vuole bene, solo che sta tornando. Una brutta sensazione, il torpore scompare in un istante. Faccio per rispondere, arriva un altro messaggio.

Stanno sparando nel locale.

Oh mio dio. Uno scherzo, fa che sia uno scherzo, me lo mangio quando torna, ma ora, ti prego, fa che sia uno scherzo. Le dita tremano ma riesco a far partire la chiamata. Nessuna risposta. Mi metto a sedere sul letto e accendo le luci.

2:07 a.m.

Intrappolato nel bagno.

Eddie non può rispondere. Corro in salotto, accendo il televisore. Giro i canali. Niente. Scrivo anche io, gli chiedo in che locale.

Al Pulse, in centro. Chiama la polizia. Morirò.

La polizia, certo, me lo devo far dire da mio figlio che devo chiamare la polizia. Il cuore mi batte così forte che ho paura mi spacchi il petto. Chiamo il 911. Mi dicono che stanno intervenendo, che hanno ricevuto altre segnalazioni. Non è uno scherzo, allora. Dicono che tra poco saranno sul posto. Lo scrivo a Eddie, Eddie non risponde, non risponde. Sto ancora dormendo, e questo è un incubo.

2:39 a.m.

Edizione straordinaria del telegiornale di Orlando.  Attraverso lo schermo, riesco a vedere da fuori il Pulse, sembra un mostro gigantesco che si è mangiato mio figlio. Col cellulare provo a comunicare con lo stomaco del mostro. Arriva un messaggio, ricomincio a respirare mentre lo leggo.

Chiamali, mamma, adesso.

L’ho fatto, Eddie, l’ho fatto. Vedo le sirene lampeggiare nella tv.

Sta arrivando, morirò.

No, non morirai. Qualcosa s’impossessa di me, mi spinge verso la porta, mi fa precipitare lungo le scale, lascio tutto aperto, luci e televisione accesa. Dieci minuti, Eddie, dieci minuti e sono da te. Sono conscia dell’inutilità del mio gesto, ma è l’unica cosa che mi sento di fare. Correre da lui.

Sbaglio strada perché corro continuando a guardare lo schermo e digitando messaggi per rassicurare Eddie, e chiedere se la polizia è arrivata, se lui è al sicuro.

No. Ancora nel bagno. Ci tiene in ostaggio. Devono venire a prenderci.

2:51 a.m.

Il mio sangue diventa ghiaccio. Svolto un angolo, e un poliziotto non mi fa andare oltre. Dio sia lodato, vorrei baciarlo, abbracciarlo. Vuol dire che si stanno occupando di Eddie. Gli chiedo se sono dentro. Mi risponde che non sono affari miei.

Presto, è nel bagno con noi.

Mostro lo schermo al poliziotto. C’è mio figlio, là dentro, c’è mio figlio, come fanno a non essere affari miei? Glielo grido in faccia, e il suo sguardo cambia. Abbassa gli occhi e mi appoggia una mano sulla spalla.

Intravedo la sagoma del Pulse dietro di lui, illuminato dai lampioni e sferzato dalle sirene. Mi sono sbagliata, non sembra affatto un mostro. È solo un edificio, fatto di mattoni e cemento. Il mostro è dentro, fatto di carne e sangue, il mostro sta divorando Eddie.

Un altro messaggio.

Sì.

Sì? Cosa vuol dire sì? Ho un brivido, svuotata di ogni energia provo a scrivere, a scrivere, a scrivere ancora. Invio compulsivamente. Non ricevo alcuna risposta. E avverto nitida la sensazione che non ne riceverò mai più.

Un secondo. Dura appena un secondo quella sensazione ma in quel secondo è come se tutti gli istanti vissuti con mio figlio si fondessero in un unico, immenso sentimento.

E quel sentimento si sposta dal presente al passato. Eddie non è più con me, mi è stato strappato per un motivo che non capirò mai. Finalmente libero il pianto. Stringo al petto il cellulare.

Tutto quel che mi resta è quell’ultimo “Ti voglio bene”

***

Un secondo. Quanto dura un secondo? Così poco che per scrivere queste poche parole ne ho impiegati una decina. Però non tutti i secondi sono uguali. Alcuni hanno il potere di dilatarsi sino a segnare l’avvenire. Il secondo in cui abbiamo chiuso gli occhi per il nostro primo bacio, quello in cui sono venuti al mondo i nostri figli, quello in cui abbiamo salutato per sempre una persona cara. Questi ce li ricordiamo tutti. Ma il secondo precedente cos’è successo? Quale tumulto agitava le nostre menti e i nostri cuori? Ecco, le storie della domenica racconteranno questi “secondi prima” dei secondi eterni, quelli in cui gli occhi stavamo per chiuderli, le mani per lasciarle o prenderle. Momenti veri o immaginari, vissuti da personaggi più o meno pubblici o ignoti o anche solo da me (ogni autore è narcisista).  Perché forse ce li siamo scordati, eppure non sono mai andati via. Quali sono i “Secondi Prima” dei secondi che hanno cambiato la vostra vita? Raccontateli a giulianopasini@gmail.com e, se vorrete, diventeranno storie.