Nella mia personale esperienza, il viaggio richiede delle fasi di elaborazione, come il lutto, a cui per certi versi assomiglia. Non tutti i viaggi, intendiamoci. I viaggi come il mio, i viaggi “assoluti”.
La prima fase è quella del dubbio (“Ho fatto bene a partire?”), la seconda è quella della paura (“No, maledizione, certo che no!”), la terza quella del pianto (“Sono sola, sola veramente”), la quarta è quella della reazione (“No, non torno! Voglio scoprire cosa mi aspetta”), la quinta è quella della consapevolezza (“Sono in viaggio, oh mio dio, sono in viaggio per davvero!”), la sesta è quella della gioia (“E’ la cosa più intelligente che abbia fatto in vita mia!”), e infine l’ultima, la più bella, la fase della libertà (“E’ il MIO viaggio!”).
Cosa mi ha spinto a partire? Il motivo più semplice: non ero padrona della mia vita. Il passaggio più complesso è stato quello di trasformare la voglia di cambiare in cambiamento, far diventare, cioè, la potenza del mio desiderio un atto preciso, un’azione.E il secondo più difficile, in fondo, è stato il primo. Anzi, quello ancora precedende, quando ho sentito il tonfo della porta chiusa alle mie spalle risuonare prima nelle mie orecchie e poi nel mio cuore. Non ho avuto il coraggio di voltarmi a guardarla, in quel momento ho realizzato di non avere idea di dove sarei andata, né di quando sarei tornata, ma soprattutto di come me la sarei cavata. Un viaggio senza meta, un viaggio per cambiare, evolvere e per ritrovarmi, un viaggio per abbandonare la mia individualità ed aprirmi prossimo…al diverso. Un secondo che non è arrivato per caso, o per un colpo di testa, se dovessi elencare tutti i secondi che ho impiegato per pianificare, per costruirlo, questo viaggio, non finirei più di scrivere.
Sul tavolo della cucina, dietro quella porta chiusa, ho lasciato un biglietto per i miei genitori, convinti che stessi partendo per una semplice vacanza in Spagna. Viaggiare è trovare, certo. Ma è anche perdere, lasciarsi indietro qualcosa, anzi, lasciarsi indietro tutto, e lo capisci solo quando sei lontano… lontanissimo.
Dopo quel secondo sospeso tra il partire e il restare, l’unico attimo di presente tra il passato e il futuro, ho fatto qualcosa di cui intuivo soltanto l’importanza: il primo passo.
Non chiedetemi quando tornerò. Non lo so. E non voglio saperlo.”
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Un secondo. Quanto dura un secondo? Così poco che per scrivere queste poche parole ne ho impiegati una decina. Però non tutti i secondi sono uguali. Alcuni hanno il potere di dilatarsi sino a segnare l’avvenire. Il secondo in cui abbiamo chiuso gli occhi per il nostro primo bacio, quello in cui sono venuti al mondo i nostri figli, quello in cui abbiamo salutato per sempre una persona cara. Questi ce li ricordiamo tutti. Ma il secondo precedente cos’è successo? Quale tumulto agitava le nostre menti e i nostri cuori? Ecco, le storie della domenica racconteranno questi “secondi prima” dei secondi eterni, quelli in cui gli occhi stavamo per chiuderli, le mani per lasciarle o prenderle. Momenti veri o immaginari, vissuti da personaggi più o meno pubblici o ignoti o anche solo da me (ogni autore è narcisista). Perché forse ce li siamo scordati, eppure non sono mai andati via. Quali sono i “Secondi Prima” dei secondi che hanno cambiato la vostra vita? Raccontateli a giulianopasini@gmail.com e, se vorrete, diventeranno storie.