Io odio le montagne. Fa strano sentirlo, lo so, visto che vado così forte sui tornanti, sembri una moto, mi dicono. Eppure è semplice, banale: se odi una cosa vuoi che finisca presto, io che vengo dal mare odio la fatica della salita, per cui cerco di farla finire il prima possibile.
Così, anche oggi sono andato più forte che potevo, più forte di quanto possono fare gli altri. Mi dicono che non dovrei, che in gruppo ci sono delle regole, che dovrei lasciare spazio a Jalabert o agli italiani che dovrebbero andare in salita, Gotti o Simoni, che questo è il Giro d’Italia, mica il Giro di Marco Pantani.
Però, la gente è il Pirata che vuole vedere. Arrivano ore prima, si piazzano con le tende e i camper dove la strada sale di più, e scandiscono il mio nome, invocano lo scatto, vogliono vedere la bandana volare via, o il diamantino al naso, come a Montecampione l’anno scorso che per staccare Tonkov dovevo essere leggero, così leggero che i pochi grammi del piercing mi sembravano un peso insostenibile.
Ho vinto tanto, in questo Giro. Tutto quello che ho potuto. Qualcuno dice che ho vinto troppo. Che ho ammazzato subito la gara, che bisogno c’era di fare quei numeri sulla salita del Santuario di Oropa? Riprenderli tutti dopo che mi era scesa la catena, e vincere a braccia alzate? Che bisogno c’era di scattare sul Gran Sasso, all’inizio? O di fare i numeri sia all’Alpe di Pampeago che, ieri, a Madonna di Campiglio? Che discorsi sono, mi chiedo io? Che bisogno c’era di dare nove minuti a Ullrich in mezzo alle nuvole basse del Galibier e alle Deux Alpes, allora.
Poi, a me qualcuno ha mai fatto sconti? E allora perchè dovrei farli io?
Io ho fame. La sfiga mi ha battuto troppe volte, e quest’anno che non ci sono stati gatti a infilarsi tra le ruote come nella discesa del valico di Chiunzi nel 1997, niente fuoristrada dietro le curve come nella Milano – Torino, niente auto che mi investono, come nel 1995, l’anno peggiore, ho fatto vedere di che pasta sono fatto.
Voglio riprendermi tutto quello che mi è stato tolto. Mi sono dovuto rialzare troppe volte, e ora che sono in piedi, non possono più abbattermi.
Per questo ho aggredito così Mortirolo, oggi. Per me e per la gente. Volevo celebrare lo scatto del 1994, quando tutti si accorsero di me, riuscii a staccare Indurain, il mio capitano Chiappucci e Berzin…
Vedo il traguardo dell’Aprica davanti a me.
Ho il tempo per alzarmi sui pedali l’ultima volta, rilanciare, scattare. Non serve, gli altri corridori chissà dove sono, non li sento, non sento nemmeno le urla delle persone. Stacco le mani dal manubrio, le batto e allargo le braccia come fossero ali. La verità è che in questo secondo prima di tagliare il traguardo, sono solo con la mia sofferenza, la gioia arriverà solo dopo. È un po’ come morire.
La verità è che questo non mi è mai successo, non sono mai uscito dall’Hotel Touring di Madonna di Campiglio, non me l’hanno permesso. Sono morto lì, non a san Valentino del 2004, non a un secondo dalla fine della tappa che dovevo vincere.
O almeno provarci.