Livia Cevolini: battere la Ferrari da startup di moto è stata una soddisfazione

L.Cevolini su Energica

Livia Cevolini

“Nel 2008, in piena crisi, con mio padre e mio fratello ci siamo guardati attorno per diversificare le nostre attività e avevamo studiato un progetto di una macchina sportiva elettrica, ma il business si è rivelato non sostenibile. Allora abbiamo iniziato a studiare una moto elettrica da corsa e così nel 2009 siamo partiti con questa nuova avventura”. Nasce così Energica Motor, costola del gruppo Crp di Modena che fa capo alla famiglia Cevolini. Livia Cevolini, che ha appena ritirato a Berlino il premio IDTechEx 2016, vinto come  “Most Impressive New Company” nella sezione “Electric Vehicles,  guida questa nuova realtà e da startup l’ha portata in Borsa nel gennaio scorso, con la quotazione all’Aim. “Abbiamo pensato a un prodotto nostro che potesse sfruttare la tecnologia che abbiamo sviluppato per conto terzi. Lo abbiamo fatto realizzando una moto elettrica, che non ci metteva in diretta concorrenza con i nostri clienti, presenti nel comparto auto” spiega l’amministratore delegato della società, aggiungendo: “Abbiamo iniziato a studiare il settore a fine 2009 e a fine gennaio 2010 abbiamo iniziato a progettare il primo modello da corsa”.

Quando siete riusciti a correre la prima gara?

Nel luglio 2010 abbiamo messo la moto in pista per la prima volta, guidata dal campione Roberto Locatelli. Al termine del test ci ha detto di non toccare nulla, che la moto andava bene così. Lo stesso anno abbiamo fatto i primi campionati. Arrivavamo alle gare con il nostro traino ed eravamo degli sconosciuti. Il nostro era un team di tre o quattro persone e ci occupavamo di tutto. Siamo arrivati primi nel campionato europeo e secondi al mondiale. E’ stata una grande soddisfazione anche battere la Ferrari, che è un mito per la nostra zona, la Motor Valley italiana, in occasione di una drag race non-ufficiale.

Da startup non avete aperto il capitale a fondi di venture capital, come mai?

Credo che si possa parlare di un “concorso di colpe”. Quando abbiamo cercato i contatti con i fondi eravamo un’azienda troppo giovane, c’era da investire in un progetto perché stavamo pensando ad una moto elettrica per strada ma era solo ancora un progetto. I venture capital chiedevano qualcosa di più concreto e chiedevano una crescita più veloce rispetto a quella che la nostra startup poteva garantire. Quando siamo tornati ad affacciarci su questo mercato eravamo ormai diventati troppo grandi ed eravamo già un’azienda industriale con alti costi fissi.

Come è arrivata la decisione della quotazione in Borsa?

Ci avevano offerto la quotazione all’Aim anche qualche anno prima, ma si trattava di una realtà ancora poco conosciuta. Poi ce lo ha riproposto Ubs, con la quale avevamo deciso di fare un percorso di dual track, un investitore o la quotazione. Abbiamo scelto questa seconda via e con l’Ipo abbiamo raccolto 5,3 milioni con cui stiamo portando avanti gli investimenti. Abbiamo allestito la produzione, investito in marketing e nella rete commerciale.

Com’è l’esperienza di società quotata?

La Borsa è stata la scelta giusta: ci permette di avere i capitali per crescere e allo stresso tempo di mantenere la maggioranza del capitale, che ci dà la libertà di decisione in un momento decisivo come quello che l’azienda sta vivendo.

Quali sono gli obiettivi finanziari che vi siete posti?

Per quest’anno contiamo di produrre 238 moto da strada per chiudere l’anno con un fatturato di 6,5 milioni, che salirà a 17,6 milioni l’anno prossimo. Raggiungeremo il breakeven a mille moto prodotte. Vendiamo già in Svizzera, Germania, Olanda, Norvegia, Spagna, Portogallo, Uk e Usa e siamo in trattative per Israele e Iran.

Come si posiziona l’Italia a livello internazionale in quanto a tecnologia per auto e moto?

Siamo i numeri uno dal punto di vista tecnico senza ombra di dubbio sia a livello di singoli individui che di imprese. C’è un territorio intero di altissime competenze. Il problema degli italiani è non saper raccontare quanto sono bravi.

Un esempio pratico di un errore italiano?

In Uk per promuovere le loro eccellenze nel motor sport, ad esempio, hanno creato un’organizzazione privata che opera in modo concreto con missioni all’estero, collaborazione con il governo per gli incentivi e così via. Riescono a fare massa critica. Gli imprenditori italiani sono soli.

Colpa delle istituzioni?

In questo caso dell’individualismo degli imprenditori, che si ritrova anche fra i giovani, perché c’è sempre la sensazione che l’altro “ti voglia fregare”. Non ci comportiamo come una vera rete.

Hai seguito prima il corso di laurea in ingegneria dei materiali, poi in ingegneria gestionale. Ambienti sempre molto maschili. Credi ti abbia penalizzato?

Mi viene in mente un episodio: a lezione un giorno un professore si fermò e chiese a una ragazza “Lei ha capito?”. La ragazza rispose di sì e lui chiosò: “Se ha capito lei hanno capito tutti”. E fare l’imprenditore è ancora più dura che fare ingegneria meccanica. Non è scontato avere una donna a capo di un’azienda di moto. Devi trovare la via giusta per parlare con le persone. Dopo un po’ che parli e dici cose interessanti, smettono di pensare che sei una cretina. Bisogna imparare a usare a proprio favore certe situazioni.

Si sono sbagliati spesso su di te?

Non bisogna giudicare dalle apparenze e qualcuno l’ha fatto in passato. Mio padre mi ha sempre ripetuto: anche l’ultimo dei gommisti può diventare amministratore delegato. Non sai mai chi hai di fronte e non devi dare le cose per scontate. Io non lo faccio con gli altri e gli altri non dovrebbero farlo con me.

Come avvicinare le ragazze alle stem?

Spiegando loro le enormi potenzialità delle scienze e della tecnologia e la necessità che si ha sul mercato di figure che sappiano coniugare queste competenze con la creatività e un lato più artistico. Questo le può affascinare.

Che consiglio daresti a un giovane (maschio) che vuol fare la tua carriera?

In Italia è molto difficile fare l’imprenditore, bisogna essere pronti a fare sacrifici veri. Però se una persona ci crede riesce, perché in Italia hai la fortuna di avere accanto persone molto capaci e professionalmente preparate, cosa che non succede sempre all’estero.