Nel terzo settore solo un presidente su quattro è donna

Anja Ringgren Loven

Anja Ringgren Loven

L’immagine della cooperante danese Anja Ringgren Loven che disseta Hope, il bimbo “stregone” abbandonato in un villaggio della Nigeria, ha fatto il giro del mondo ed è una eccellente istantanea per descrivere il terzo settore. Ma evoca anche una suggestione sul ruolo delle donne in questo ambito, quello della propensione alla cura, che potrebbe non essere poi così scontata e confermata dai dati, almeno in Italia. Il terzo settore, ovvero l’insieme di attività che si caratterizzano per l’essere non profit, ha in realtà un bel peso economico. Solo nel nostro Paese infatti, secondo una ricerca recente di UniCredit Foundation, genera un volume di affari di circa 67 miliardi di euro, equivalente a circa il 4% del Pil, e conta su un bacino di risorse di circa 500mila addetti e 4 milioni di volontari. Qual è l’apporto femminile? Se guardiamo agli ultimi dati Istat, nelle organizzazioni di volontariato la quota rosa è pari al 45% in un quadro complessivo che vede a livello italiano un tasso di partecipazione femminile alle associazioni di volontariato pari al 2,9% (circa 3 donne su 100 fanno volontariato), contro il 3,9% degli uomini. Donne meno rappresentate ma con livelli di impegno superiori a quelli dei colleghi maschi con una media di 18,5 ore settimanali di attività contro 15,4 .

Ma è guardando ai settori con la maggiore presenza femminile che i dati della ricerca Istat in parte sfatano il mito della donna che vede nel volontariato una prosecuzione della attività di cura che tradizionalmente le viene assegnato. Le percentuali maggiori si hanno infatti non nella “sanità” e nel “sociale”, ma nelle associazioni di volontariato a sfondo religioso e in quelle che presentano un orientamento civico (ad esempio per la tutela di diritti o per la promozione di forma di cittadinanza attiva). Piccola curiosità, solo il 3% delle volontarie è impegnato nello sport. Questi dati contribuiscono a delineare un quadro complesso in cui convivono aspetti piuttosto tradizionali ed altri decisamente più dinamici. In generale, si può immaginare che una parte delle donne – presumibilmente le più istruite ed emancipate sotto il profilo dei rapporti familiari e sociali – guardino al volontariato come ad un ambito in cui è possibile rompere determinati steccati culturali e ideologici legati agli stereotipi di genere. Non solo. Le donne vedono nel terzo settore anche possibili risvolti professionali. E qui le differenze con gli uomini emergono più forti, perché ben il 70% delle donne annovera tra le motivazioni della scelta del volontariato il lavoro e le ricadute professionali.

barbara

Barbara Cerizza, Mani Tese

Se guardiamo al mondo delle Organizzazione Non Governative, i dati raccolti nel database di www.open-cooperazione.it confermano che le risorse umane sono molto bilanciate 51% donne e 49% uomini. Lo scenario cambia se si considerano le possibilità di carriera: le posizioni apicali sono occupate al 38,2% da donne e al 61,7 da uomini 61,7. Il dato si abbassa ancora quando si parla di presidenti o rappresentanti legali delle organizzazioni: le donne sono il 25,5% e gli uomini il 74,5%. “Non mi stupisce che le donne nel mondo no profit abbiano le stesse difficoltà del mondo profit”, afferma Barbara Cerizza, coordinatrice generale di Mani Tese. “Siamo espressione dello stesso modello di società, che si basa su dinamiche molto maschili. Sebbene siamo consapevoli delle tematiche di genere, che spesso inseriamo nei progetti di cooperazione, purtroppo non si riesce ad applicarle nel nostro contesto italiano e nelle modalità relazionali che riguardano il nostro mondo Il cambiamento deve essere culturale. È un percorso lungo…”.

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