Un secondo. Le dita sanno cosa fare

Un secondo. Quanto dura un secondo? Così poco che per scrivere queste poche parole ne ho impiegati una decina. Però non tutti i secondi sono uguali. Alcuni hanno il potere di dilatarsi sino a segnare l’avvenire. Il secondo in cui abbiamo chiuso gli occhi per il nostro primo bacio, quello in cui sono venuti al mondo i nostri figli, quello in cui abbiamo salutato per sempre una persona cara. Questi ce li ricordiamo tutti. Ma il secondo precedente cos’è successo? Quale tumulto agitava le nostre menti e i nostri cuori? Ecco, le storie della domenica racconteranno questi “secondi prima” dei secondi eterni, quelli in cui gli occhi stavamo per chiuderli, le mani per lasciarle o prenderle. Momenti veri o immaginari, vissuti da personaggi più o meno pubblici o ignoti o anche solo da me (ogni autore è narcisista). Perché forse ce li siamo scordati, eppure non sono mai andati via. Quali sono i “secondi prima” dei secondi che hanno cambiato la vostra vita? Raccontateli a scrivi@giulianopasini.it e se vorrete, diventeranno storie. Ecco la prima.

LE DITA SANNO COSA FARE

Fin qui è stato facile. Oddio, facile non è la parola giusta perché di facile, ormai, non c’è niente, neanche camminare o respirare. Poi sono qui sul palco, e anche se ne ho calcati infiniti, questo è speciale. Sarà perché era mitico quando io ero un bimbo e la portiera del mio palazzo me ne parlava, sarà perché ci sono milioni di italiani incollati allo schermo a guardarmi. E io non voglio che vedano un freak, voglio che vedano uno che ha la musica dentro, che ride in faccia alla strega che gli ha gettato addosso quel brutto maleficio che si chiama malattia, anche se passare dalla sedia a rotelle alla panca del pianoforte è una scalata, un’impresa.

Italian musician Ezio Bosso performs on stage during the Sanremo Italian Song Festival at the Ariston theater in Sanremo, Italy, 10 Februaty 2016. The 66th Festival della Canzone Italiana runs from 09 to 13 February. ANSA/ETTORE FERRARI

Ezio Bosso, SanRemo 10 febbraio

Milioni di italiani, là da qualche parte, a guardare me. Eppure adesso mi sento solo. Non posso più prendere in giro il mio modo di parlare, dire che la musica è la mia terapia. Non c’è più il conduttore, quel pazzo che ha pensato di farmi entrare nelle case mentre la gente mangia, digerisce, chiacchiera o si concede il bicchiere della staffa. Io sono uno di quelli che spesso vengono nascosti, e qua mi sbattono in prima serata.
Meglio non pensarci. Ho detto il mio «Ciao», compiuto il mio rito. Davanti a me ci sono i tasti. 88, 52 di colore bianco e 36 di colore nero. Li potrei chiamare per nome, non riesco a contare le volte che li ho accarezzati o frustati, li ho consumati fino a dimenticarmeli e ho dovuto imparare a conoscerli una seconda volta… eppure… eppure ho paura di non trovarli, che la cacofonia distrugga l’armonia.

Ecco. Le luci in sala sono spente, solo una, forte sulle mie mani. La gente trattiene il fiato, lo sento. Lo sto trattenendo anche io.

Sento la musica, la mia musica, scendere veloce in me, percorrere le mie vene, prendere possesso dei miei nervi bislacchi. Cosa succederà? Freak o mastro? Lo capirò tra poco.

Tra un secondo.

Appoggio le dita, loro sanno cosa fare.

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