Sono stata al SEI Forum, il primo incontro organizzato dalla Scuola di Imprenditoria e Innovazione di John Elkann per “ispirare i founders europei” a fare come e meglio di quelli americani. A questo scopo sono stati invitati a Torino 100 fondatori di startup europee per ascoltare una quindicina di founder giganti che, nelle parole di John Elkann, “ce l’hanno fatta”. Una mattinata intensa in cui io, come probabilmente molti altri, ho portato il mio essere fondatrice di una startup, ma anche blogger per AlleyOop, madre dei miei impegnatissimi figli piccoli, manager di una squadra in evoluzione: insomma chi è più “una cosa sola” al giorno d’oggi? E’ importante che premetta che è con queste molteplici orecchie che ho ascoltato e vi racconto le tre cose essenziali che mi porto a casa.
Tema numero uno: per diventare dei “giganti”, è più utile avere ambizione o visione?
La parola ambizione risuona dal primo all’ultimo minuto della mattinata: l’ambizione sembra essere la prima carta da giocare per essere un founder di successo, e si porta dietro determinazione, ostinazione, focus e ossessione. Il moderatore e giornalista del Guardian, Paul Lewis, cerca inutilmente per un paio di giri di domande di far emergere la visione, il “senso sociale” dei suoi interlocutori, e domanda
“E’ importante che una startup voglia cambiare il mondo?”.
Peter Thiel (fondatore tra l’altro di Paypal) gli risponde che “considera termini come “valori” e “visione” obsoleti. Avevano senso nel 2005, ma oggi sono termini da ufficio delle risorse umane e vengono usati nel modo sbagliato, sviano l’attenzione”. Lewis affina il tiro: “Che mi dite allora delle potenziali conseguenze non volute della tecnologia?”. Reid Hoffman (fondatore di Linkedin) taglia corto: “E’ una domanda molto europea: in America non te la farebbe nessuno. Se vuoi crescere, devi prenderti dei rischi”.
Ambizione batte visione due a zero.
(E io in fondo al cuore spero che su questo tema l’Europa possa contaminare almeno un po’ il format del successo all’americana: aggiungendovi uno spessore e un istinto sociale, rivolto al futuro, che i suoi testimonial attuali non considerano far parte della propria area di potere e responsabilità).
Tema numero due: startupper donne ovvero… il trucco sta nel non cambiarsi d’abito.
Non c’è panel in cui non emerga almeno una domanda sul genere, ma di donne a testimoniare sul palco il proprio successo imprenditoriale ce n’è una sola, Demet Suzan Mutlu (fondatrice della società di ecommerce leader in Turchia, Trendyol Group), che spiega la carenza di role model femminili con una ragione di base: il perfezionismo delle donne, che le porta a muoversi solo quando si sentono “perfette”, mentre creare un’impresa vuol dire prepararsi a commettere molti errori – altrimenti come impari? – fare molte cose molto imperfette e non sentirsi mal giudicate per questo. Demet addita anche i media, sempre a guardare e a parlare di come appaiono le donne – mentre gli uomini si possono rilassare e vestirsi come vogliono, anche malissimo (e nel dirlo indica il suo compagno di panel, un rilassato e stazzonato Taavet Hinrikus, fondatore di Transferwise), tanto non li guarda nessuno. Spiega che lei ha risolto la faccenda così:
“Io negli eventi pubblici mi vesto sempre uguale (jeans e blazer rosso), così le persone si focalizzano sul quello che dico e non su come mi vesto”.
(Le donne della mia generazione ricorderanno il film degli anni ‘80 Una donna in carriera, in cui Tess McGill dice qualcosa di molto simile: la frase “Vesti male e noteranno il vestito, vesti bene e noteranno la donna” credo ci abbia condizionate per decenni).
Tema numero tre: se vuoi fare l’imprenditore, scordati il work-life balance.
“Life” è un’altra parola che è circolata nel corso della mattinata, ma in contrapposizione al termine “ambizione”. Ossia: o hai una oppure hai l’altra. Non ha dubbi Hoffman: “Il work-life balance non è previsto nelle startup: i founder sono persone che stanno aggiustando un aereo mentre precipita, non hanno tempo per fare altro”. Anche dagli altri relatori, quello che emerge è un plebiscito contro l’equilibrio: Xavier Niel (fondatore dell’internet provider Free) si aspetta di trovare i suoi startupper al lavoro a mezzanotte (e non in discoteca!) e la stessa Demet si dice “troppo ossessionata” dal proprio lavoro per potersi prendere sei mesi di pausa per diventare madre. La definisce “forse l’unica area di miglioramento che mi resta: sono sposata da nove anni ma non ho tempo per avere dei figli”.
E io silenziosamente mi domando: quante cose immaginifiche potrei fare per la mia azienda nelle tre ore che dedico ogni giorno ai miei figli?
“Ma in realtà sembra che Demet abbia trovato il suo equilibrio in quello che fa – mi dirà più tardi Diego Piacentini (Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale italiana, ex top manager Amazon): “Il work life balance non ha una definizione oggettiva. Io per esempio, anche quando lavoravo in Amazon non rinunciavo ad andare a giocare a calcetto due volte a settimana”
E adesso, gli domando, lavorando con la politica e la pubblica amministrazione ce la fai ancora?
“No”, confessa: “i politici sembrano prendere decisioni per sfinimento, fanno durare le riunioni all’infinito in modo che alla fine quando decidi sei al massimo livello di stanchezza.
E pensare che Jeff Bezos mi diceva che lui non prende mai decisioni quando è stanco, soprattutto quelle importanti”.
Il segreto di Jeff Bezos, l’ultima cosa che ascolto in questa giornata, mi consola. Allora anche lui pensa che da qualche parte, in qualche modo, ci si debba ricaricare!
Il work-life balance (qualunque cosa si faccia nella dimensione “vita”, non solo i bambini) serve dunque a qualcosa: a ricaricare le energie, ad alzare lo sguardo e vedere meglio, soprattutto quando c’è da prendere decisioni importanti. Ecco un’altra cosa con cui la vecchia Europa potrebbe provare a contaminare il modello americano: respirare, rallentare, accettare qualche complessità in più… che proviene anche da altre dimensioni della vita.