Marina Ballo Charmet: bisogna fare i conti con gli scarti degli sguardi

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“Durante un viaggio in Spagna avevo avuto l’intuizione che le cose fossero di fronte a me per essere viste e anzi che forse le “vedevo” in quel momento per la prima volta… Era una sensazione di meraviglia per le cose che semplicemente esistevano, con un loro ritmo… Per me fotografare significa rendere presente. È lì, è così.”

Così scrive Marina Ballo Charmet, una fra le nostre artiste fotografe più apprezzate, in Italia e all’estero, nel libro da poco pubblicato Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia, Quodlibet 2017, nel quale cerca di “restituire il senso e la complessità di ciò che avviene quando si lavora con le immagini”.

La incontro nel suo studio milanese in zona Sempione, che, scoprirò poi, era la casa di famiglia e anzi la nostra conversazione si svolge in quella che era un tempo la sua camera; Marina non ha deciso di fare l’artista, è una psicoterapeuta, abituata a lavorare con ragazzi e adolescenti problematici, che a un certo punto incontra la fotografia.

Per capire a com’è arrivata alla fotografia, vorrei partire dall’ambiente familiare. Come ricorda suo padre Guido Ballo?

Era un grande critico e storico dell’arte, in particolare delle avanguardie, tra i primi a dedicarsi a Lucio Fontana già negli anni ’50, ha scritto libri celebri e curato mostre importanti a Palazzo Reale, come Origini dell’astrattismo. È stato anche poeta. Casa nostra era frequentata da artisti, piena di riproduzioni e di non poche opere, così capitava che a 7 anni dovevo spiegare a una compagna di scuola che aveva senso anche una tela con dei buchi. Oggi è normale, ma a inizio anni ’60… L’arte ha lasciato traccia profonda in me.

Quali sono i suoi fotografi prediletti?

Io non amo la fotografia d’informazione, la nitidezza e la definizione eccessive, il volere illuminare ogni angolo e nemmeno la messinscena, la ricerca dell’effetto. Quindi non Weston, Cartier-Bresson o Ansel Adams, ma autori come O’Sullivan, Dan Graham, Robert Adams. Interpreti di uno sguardo diverso, non descrittivo o celebrativo, ma portatore di un’esperienza, una relazione. Io la chiamo relazione empatica.

Qui si affaccia l’altro lato della sua formazione.

Sì, la mia esperienza da psicoterapeuta, che è una professione e una passione: ho lavorato per trent’anni nei servizi pubblici.

Aldo Ballo chi era per lei?

Mio zio, il fratello di mio padre, uno dei grandi fotografi del design italiano. Era una persona sensibile, con me molto affettuoso: ogni tanto andavo con le mie foto da lui che, stupito di questa mia inclinazione, mi esortava a coltivarla. Mi ha aiutato a rendermi conto di quel che cercavo.

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Parliamo un po’ di questa passione tardiva, ma profonda.
Lavoravo da tempo e a un certo punto, a 35 anni, è emerso con chiarezza il bisogno prepotente di esprimermi creativamente attraverso le immagini, una vera e propria vocazione.

I suoi maestri in fotografia chi sono?

Gabriele Basilico in Italia e Lewis Baltz. Lo conosce? Non è molto noto in Italia, ma è un grande, uno dei cosiddetti new topographs americani che negli anni ’70 non guardano più la natura sublime alla Ansel Adams, ma scoprono un paesaggio nuovo, a misura di uomo, tra natura e cultura, misteriosamente affascinante.

E Basilico?

Era un punto di riferimento, un amico e un maestro. Maestro per me non è chi ti insegna quel che lui vuole, ma chi sa tirare fuori quello che tu hai dentro. A me il suo lavoro piace tantissimo, io lo leggo anche in modo differente: secondo me in Gabriele oltre l’oggettività vi è l’aspetto del perturbante e dell’ambiguo. Mentre l’ascolto il mio sguardo si muove per la stanza luminosa e spoglia, fermandosi sulle stampe fotografiche appoggiate alle pareti: porzioni di volti, marciapiedi e asfalto, scorci d’erba mi attraggono e mi introducono in un territorio senza punti di riferimento, talmente quotidiano da essere straordinario.

E Marina Ballo Charmet fotografa cosa vuole raccontare?

Più che fotografa io uso la fotografia. Cerco di ritrovare lo sguardo del bambino: vedere il mondo come per la prima volta, nella sua verità.  Sono partita con il primo lavoro – Il limite – da paesaggi bianchi e quasi vuoti, una danza della luce tra cielo e mare, su quel qualcosa – confine, orizzonte – che forse non esiste, se non per noi.

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Da uno dei miei lavori più noti, della metà anni ’90, deriva il titolo Con la coda dell’occhio: qui abbiamo sotto gli occhi la banalità del paesaggio urbano che ci circonda, ma di cui non ci accorgiamo. Lo scarto, quel che è trascurabile, marginale, conquista il centro e ci obbliga a fare i conti con quello che io chiamo il rimosso dello sguardo.

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Lei ha realizzato anche dei video…

Amo incrociare l’immagine ferma con quella in movimento, metterle in dialogo. In Passi leggeri ho legato la camera alla vita e ripreso i miei spostamenti in casa: è come se fosse il corpo a parlare, il caso; non c’è più il controllo della mente. In un video successivo, Stazione eretta, ho seguito invece i primi passi di un bambino piccolo.

Sempre il bambino: la psicologa viene fuori.

Infatti in Primo campo, progetto fotografico del 2000-2, è lo sguardo del bambino in braccio alla mamma o a un familiare: scatti ravvicinatissimi in cui uso il fuori fuoco per andare oltre il vedere, per far sentire gli odori, il contatto fisico, tattile della persona. I dettagli dei volti tra mento e collo, stampati in formato molto grande, hanno un impatto forte: mentre guardavo una di queste foto mi è tornata fuori l’immagine di una zia, una vecchia tata di cui non ricordo nulla, a partire dalla sensazione della lana del maglione.

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E come è arrivata alle foto nei parchi?

Da un invito di Elio Grazioli per il festival Fotografia Europea di Modena: è un lavoro nato da un giro al parco Sempione, dove andavo da piccola. Osservando dei migranti in un giorno di festa, uomini e donne dell’est che ballavano su una musica triste, ma i loro volti erano sorridenti: il parco diventa il luogo nel quale ritrovare la propria cultura, stare insieme tra connazionali, condividere legami, affetti; un luogo pubblico si trasforma in uno spazio intimo, privato. Il lavoro è proseguito poi in Italia e all’estero, a Parigi, Londra, fino a Central Park di New York.

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È una svolta nel suo percorso.

Ma tanti elementi tornano: il fuori fuoco, l’inquadratura che non vuole riprendere un avvenimento, una scena, ma rendere un’esperienza come fossimo lì anche noi, accanto a quelle persone. Vediamo sentendo, con le emozioni.

La fotografia non è la sua professione, non le deve dare da vivere: questo le ha dato la libertà di dedicarsi a progetti che sentiva suoi?

Certamente. Era comunque necessario ritagliarmi del tempo, per esempio durante le ferie, per dedicarmici; ho avuto anche committenze, per esempio per l’Archivio dello Spazio della Provincia di Milano, voluto da Roberta Valtorta.

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Lei lavora come terapeuta con ragazzi e preadolescenti usando anche la fotografia vero?

Sì, qui le due mie passioni convergono. Seguo un metodo, il photolangage, elaborato da psicoanalisti francesi della scuola di Lione. È un lavoro che si fa in gruppo e in cui si usano anche le fotografie. Quando un ragazzo sceglie una foto che lo attira e spiega perché, quali emozioni gli richiama, parla del proprio vissuto, delle sue esperienze in modo più libero di quanto non farebbe in un colloquio. Si stabilisce un contatto empatico e possiamo lavorare assieme, su di lui e con lui.

Già, per Marina Ballo Charmet, quel che fa la differenza è la passione.