Perché corro, anche quando non corro

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Un paio di estati fa mi ritirai con un amico in un monastero benedettino nel nord dell’Inghilterra, con poca religiosità e molta speranza di trovare lucidità. Ero in un periodo di decisioni di vita che, all’epoca, sembravano vitali. Appena uscito dall’università e con un grosso investimento alle spalle, sapevo che le opzioni di lavoro più redditizie erano anche quelle che meno mi appassionavano. Allo stesso tempo, ero incerto di cosa mi appassionasse in quel momento.

Prima di partire, mio padre, conoscitore dei miei esperimenti tanto drastici quanto poco duraturi, mi disse: “E’ inutile andare in un monastero se non capisci come construirne uno interiore”. Tornai a Londra – dove abitavo quell’estate – più confuso di prima e con in testa l’eco di quella frase tanto altisonante quanto veritiera. La mattina dopo, all’alba, insonne e irrequieto, andai a correre lungo il canale.

L’isolamento non è solitudine

Quella mattina londinese fu la prima volta. Non che non avessi corso prima, ma in passato la corsa era stata un po’ come i compiti estivi: un esercizio tanto necessario quanto spiacevole. Da allora, correre per me è diventato un ingresso volontario in uno spazio di indipendenza, piuttosto che il semplice compimento di un gesto fisico. Il romanziere giapponese Haruki Murakami descrive al meglio questa sensazione in “L’arte di correre”: “Corro in un vuoto. O meglio, corro per acquisire un vuoto … fatto in casa, [il] mio silenzio nostalgico. Ed è una cosa meravigliosa.”

C’è una differenza fondamentale tra l’isolamento e la solitudine. Oggi, nessuno dei due va di moda. A colpi di condivisioni, di “mi piace” e di “retweet” scacciamo entrambi. Paradossalmente, però, meno ci isoliamo, più ci sentiamo soli. Secondo un rapporto della Royal Society for Public Health, l’essere social causa sentimenti di inadeguatezza, ansia di non essere parte dell’evento o del gruppo “giusto” e, quindi, dipendenza nelle scelte. In altre parole, conformismo.

La scienza comportamentale ha dimostrato che, in quanto esseri umani, siamo particolarmente vulnerabili al conformismo, ma ciò non ci rende particolarmente felici. Spesso, per lavoro o volontariato, incontro persone che ricadono nel “franchising delle scelte”: nonostante i dubbi e le alternative, finiscono per adattarsi alle opzioni più condivise – quelle che prenderebbero più “like”, per capirci. Condivisibili sì, ma non soddisfacenti. Per questo, che sia per 4 o 40 chilometri, per mezz’ora o una giornata, ogni giorno cerco di ritagliarmi una visita al mio monastero personale: la corsa.

Un vuoto fatto in casa” è l’unico spazio in cui poter osservare con chiarezza telescopica gli stimoli sociali alla luce dei motivi personali. Non è forse questo che ci rende decisori indipendenti, responsabili e consapevoli? E non sono le scelte autonome ed informate quelle che hanno più valore ed efficacia?

I limiti non sono limitazioni

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Michele Graglia

C’è un’altra differenza fondamentale che ho imparato correndo: quella tra limiti e limitazioni. Ultimamente, mi ha ispirato la storia di Michele Graglia che, da supermodello, in cinque mesi si è affermato tra i più veloci ultramaratoneti sulla scena globale – arrivando addirittura prima dei ciclisti nell’ultramaratona più fredda del mondo.

Ovviamente, Graglia è un atleta d’élite e la mia non vuole essere una celebrazione del rischio senza adeguata preparazione. Ugualmente ovvio è il fatto che il limite umano è ben al di là delle limitazioni che ci imponiamo nel quotidiano. Graglia, nel suo libro con Folco Terzani, racconta di trovare la libertà oltre il limite. Persone come lui, il limite lo definiscono. Nel quotidiano, si può cominciare con l’abbattere limitazioni. In qualche modo, l’idea è quella del “dilemma dell’innovatore”: paradossalmente, il momento in cui si pensa di aver raggiunto un nuovo punto di equilibrio, una limitazione, è quello migliore per sperimentare ed investire in nuove soluzioni.

Con chi, per chi, perchè

“Il dolore è inevitabile, soffrire è un’opzione” – ricorda sempre Murakami.  Nella vita, come nella corsa i momenti di crisi sono una questione di tempo (o di chilometri). Quando si incontrano – per quanto l’isolamento sia necessario a rendersi indipendenti nelle scelte – è utile ricordare con chi, per chi e perché muoviamo il passo successivo.

emil-zatopekNessun uomo incarna la compassione, la generosità e l’essenza collettiva di un gesto apparentemente individuale come la corsa quanto Emil Zátopek: l’atleta ceco che stabilì 18 record mondiali, vinse 5 medaglie olimpiche e ne regalò una all’atleta australiano Ron Clarke poco prima di essere recluso dal regime comunista per aver sostenuto la primavera di Praga.

“Oggi muoriamo un po’” (Today we die a little) – disse Zátopek sulla linea di partenza della maratona di Melbourne nel 1956, all’indomani di un’operazione all’ernia. Non c’è motivazione che possa spiegare una decisione simile se non il fatto che, nelle parole del campione ed eroe della Guerra Fredda, “la vittoria è grande, ma l’amicizia lo è ancora di più.” Non è un caso che nell’investigare i segreti della più grande tribù di ultracorridori della storia, i Tarahumara, il giornalista Christopher McDougall in Born to run giunga a due semplici, ma non banali conclusioni: divertirsi e correre gli uni con gli altri, più che contro. Non banali, perché ad oggi, dall’ufficio alla palestra, questi elementi sembrano essere più l’eccezione che la regola.

Né atleta, né amatore, ma amante

Forse non è una coincidenza che l’etimologia di “divertirsi” sia “cambiare direzione, prospettiva” . Per me, con la corsa, è stato così. Certo, ogni tanto i crampi suonano prima della sveglia. Quando succede, mi ricordo che c’è la signora giapponese di cui non so il nome e con cui non ho mai scambiato una parola che, all’alba, mi aspetta regolarmente al parco per correre insieme, in parallelo.

Non sono né un atleta, né un amatore, ma un amante di quella sensazione di entrare nel mio vuoto personale, per trovare indipendenza, per definire con chi, per chi e perché spingermi verso nuovi limiti. Ecco perché corro – in un certo senso, anche quando non corro.

  • Ennio Farina |

    Sono pensieri veri belli condivisibili,tante volte quando si correre in solitudine è il momento in cui ci si sente un puntino infinitamente piccolo,visto dallo spazio astrale,ed ecco che si percepisce di essere non solo, ma bensì parte di tutto,e si riesce a dare ordine ai propri pensieri,e dissipare tutte quelle incertezze e paure di sbagliare,come se il giusto modo di intendere la vita, per forza di cose dipenda da come ci si pone e ci si confronta,con gli altri,e ad ogni fine della corsa,quando torno a casa, mi sento non solo, più pronto alla sana competizione,ma anche una persona più capace di capire amare e accettare ogni diversità,visto che inevitabilmente ne sono parte attiva e solo vivendo a pieno tra alti e bassi, trovo sempre il piacere di correre il mio viaggio con tutti,anche con chi non può fisicamente.

  • Pietrina |

    Come vorrei saper esprimere questi pensieri , che sono i miei, che condivido,ma che non sono in grado di “applicarli”, di concretizzarli nella quotidianità..Articolo veramente stimolante,grazie all’autore!

  • Enrico |

    Gran bell’articolo. Tanto di cappello all’autore e grazie per l’involontaria recensione di un libro che sicuramente acquisterò per la stima che ho nei confronti di Folco Terzani.

  • Marina |

    Stupendo profondo vero

  • Nunzia |

    Che sensazione meravigliosa quando qualcuno che neanche conosci, chissà dove, ha interpretato alla perfezione tutto ciò che hai dentro ……

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