La polemica innescata da alcuni esponenti del ceto politico italiano sul rapporto ONG-migranti ha due dimensioni, una giuridica e una politica. La prima sarà affrontata dai magistrati, se le illazioni diventeranno accuse reali e se le prove sostituiranno le ipotesi. La seconda, meno evidente, si manifesta quando si chiede alle ONG che salvano i migranti di fermare le loro navi al limite meridionale dell’isola di Malta. Quando le ONG, in sostanza, vengono accusate di essere dei “taxi del mare” e di fornire un’assistenza non prevista dagli accordi europei, garantendo de facto un corridoio umanitario verso l’Italia.
La mia impressione è che, in questa polemica, la dimensione giuridica sia stata usata come pretesto per avanzare questa critica, in realtà squisitamente politica. Un’obiezione legittima, ma decisamente scomoda da esporre per chi la avanza. Su questa dimensione politica, e in particolare sul rapporto fra ONG e politica, è bene fare qualche riflessione.
Le ONG si chiamano così per un motivo. Quando sono nate, il richiamo all’idea di “non governativo” aveva e ha ancora un forte valore politico: le ONG nascono per intervenire laddove i Governi non difendono le popolazioni civili, per indifferenza, per cinismo o per volontà di repressione. Era vero negli anni Sessanta, quando molte di queste organizzazioni nacquero per proporre una cooperazione libera dagli interessi e dalla corruzione degli Stati, ed è vero ancora oggi.
Il ruolo delle ONG che salvano i migranti nel Mediterraneo è proprio questo. Di fronte al fallimento delle Istituzioni Europee nel garantire il più elementare diritto alla vita, esse intervengono, non solo e non tanto per sostituirsi a quelle Istituzioni, ma per denunciare all’opinione pubblica il valore di alcuni principi universali che travalicano gli interessi dei singoli Stati: il diritto al cibo, il diritto alla vita, il diritto alla felicità.
La recente polemica deve servire a ricordarci che le ONG nascono proprio per aprire spazi di giustizia e di democrazia che non sono garantiti dagli Stati. Per questo motivo esse si trovano in una condizione di strutturale tensione dialettica con lo Stato.
Solo in tempi recenti, a Mani Tese è capitato almeno in due occasioni di essere cacciata dai Paesi in cui lavorava da governi autoritari perché aiutava le popolazioni locali: in Eritrea (Paese da cui provengono molti dei migranti che arrivano in Italia) e in Sudan (Paese con cui l’Italia ha firmato recentemente un accordo di polizia per il rimpatrio dei migranti).
La differenza tra uno Stato autoritario e uno Stato democratico è che nel primo la tensione con le ONG viene risolta in modo repressivo, per via giudiziaria (come in Turchia, Paese con cui l’Unione Europea ha firmato un accordo per bloccare i migranti), nel secondo essa rappresenta uno dei mezzi con cui la democrazia cresce e si rafforza.
Abbiamo detto più volte che il problema dell’immigrazione non si risolve nel Mar Mediterraneo e che il nostro lavoro quotidiano si svolge lontano dalle coste, accanto a coloro che non sono (ancora) partiti o che sono già tornati. Tuttavia oggi il Mediterraneo è diventato un simbolo perché è lì dove, nell’indifferenza degli Stati europei, vengono violati i più elementari diritti universali.
Se c’è una cosa positiva, dunque, in tutta questa polemica è che la banalizzazione di un problema estremamente complesso ci spinge, finalmente, a schierarci: vogliamo stare con chi per convinzione o per opportunismo elettorale spera che i migranti siano fermati dal mare oppure con chi si impegna perché il diritto alla vita non sia subordinato agli interessi nazionali?
Noi non abbiamo dubbi.