Andrea Pezzi: “L’impresa di successo? Quella empatica (e tecnologica)”

pezziHa deciso di fare impresa sfruttando al massimo le potenzialità della tecnologia e della rete. Eppure se chiedete ad Andrea Pezzi se è proprio nella liquid economy e nell’industria digitale che è scritto il futuro, lui scuoterà la testa deciso (guardandovi anche con malcelata ironia). “Io credo nelle micro-comunità. Il mondo, secondo me, può ripartire solo dal professore delle medie di provincia che si dedica a formare i suoi ragazzi e riesce a trasmettergli la curiosità del mondo e il valore dell’intelligenza. La chiave del futuro è la piccola comunità che condivide un valore e che lo porta nel mondo facendo azioni”.

Azioni come, ad esempio, creare un’impresa che funzioni. Pezzi si è innamorato di questo concetto quando ha capito che era il modo migliore per mettersi al servizio dell’altro. “Impresa – racconta – vuol dire, infatti, servire il cliente: capire i suoi bisogni e instaurare con lui una relazione basata sull’empatia”. Ma fare impresa significa anche rischiare, scommettere su di sé e sul proprio futuro come ha spiegato l’imprenditore sabato 6 maggio al Festival culturale di Lodi “Generare Futuro”.

Per fare impresa oggi conta di più sognare, rischiare o fare?
Non credo che il rischio sia una componente consapevole in chi decide di fare impresa, nella natura dell’imprenditore di valore c’è solo la voglia di compiere qualcosa di buono per se e per gli altri. Rispetto alla prosopopea del “fare”, penso sia sovrastimata come pure le fandonie attorno alla rottamazione dei vecchi a favore dei giovani: la giovane età e l’azione non sono elementi qualificanti in sé. Per come lo intendo io, il sogno, è la cosa più concreta che esista: significa rendere visibile qualcosa di invisibile, significa saper dare forma alle intuizioni realizzando ogni giorno una nuova e migliore idea umanistica di società.

pezzi2Nella tua attività di imprenditore hai scelto di concentrarti su video e digitale. Perché oggi il video è così importante?
Il video è, in questo momento storico, la forma di comunicazione più importante perché è quella che meglio risponde alle necessità dell’industria ed è la più legata all’evoluzione tecnologica.

Tu però hai scelto la forma video anche per un progetto che, oltre all’aspetto commerciale, aveva anche una grande vocazione culturale: Ovo. Come mai?
Ovo era il progetto di una Wikipedia in formato video, e nasceva proprio dalla consapevolezza che le immagini sono il modo di esprimersi che ricalca più da vicino il funzionamento della mente umana. Pensa per esempio a come sogniamo: lo facciamo per immagini, creando delle storie che sono dei video.

E invece The Outplay?
Con The Outplay ho dato vita a un’impresa che rientra nella cosiddetta liquid economy e che lavora solo con i video a livello mondiale. Si tratta di una piattaforma di distribuzione che permette ai contenuti video, prodotti dagli editori e da altri soggetti, di finire su qualunque sito aderisca al network indipendentemente dal Paese in cui sono stati prodotti. E questo consente a tutti (chi crea i contenuti, chi li ospita e chi li distribuisce) di guadagnare dalla pubblicità legata a quei video.

Il video sta però diventando sempre di più anche la forma di comunicazione privilegiata dai giornali. Per quale motivo secondo te?
Il video è potente perché ha un alto livello di engagement: attira senza coinvolgere, cattura l’attenzione senza chiedere allo spettatore alcuno sforzo di immaginazione o di interpretazione. E proprio questo lo rende un veicolo molto efficace per la pubblicità. Talmente efficace che oggi la pubblicità che appare prima di un contenuto video è quella che fa guadagnare di più. Ed è questa la ragione della corsa forsennata di tutta l’editoria verso questo mezzo di comunicazione. Più video significano, infatti, più occasioni di pubblicità (e di guadagno).

Questo meccanismo porterà alla scomparsa o alla drastica diminuzione della parola scritta?
Non so se la parola scritta scomparirà a favore della sola comunicazione tramite immagini. Tuttavia penso che il video abbia un grosso limite: non riesce ad arrivare lì dove si crea l’opinione pubblica, dove prende forma la coscienza profonda. Nel video c’è sia la forma che la sostanza e chi lo guarda non deve, come accade invece con un testo scritto, sforzarsi per dare corpo alle parole. Un’azione questa che costringe chi la fa a riflettere e interrogarsi, scendendo così più in profondità nel testo e anche in se stesso.

Visto così il video sembra un male assoluto…
Non proprio. La superficialità del video è un’ottima esca per stimolare la curiosità. Era questo, ad esempio, il principio da cui è nato Ovo. Il video, per come lo intendo io, dovrebbe essere solo la porta d’ingresso di una stanza grande quanto la tua curiosità. Se invece punta solo alla semplificazione e alla banalizzazione allora non va bene. Il rischio è infatti quello di non comunicare niente. O peggio di disabituare le persone alla riflessione, e, più in generale, alla cultura. Quella cultura che nasce sempre dalla fatica della conquista, dello studio, dell’approfondimento.

Anche la comunicazione dovrebbe evolvere in questa direzione?
Secondo me l’unica comunicazione reale è quella che avviene tra due umanità che si incontrano e si scoprono l’una nell’altra. Ho detto, infatti, che amo fare impresa per l’empatia che si crea con il cliente, e per il potere di avvicinare le persone che questa attività umana possiede. Ecco, penso che il senso dell’evoluzione che auspico sia tutto qui: la riscoperta del valore dell’incontro, della vicinanza e dell’empatia tra le persone. E questo vale per tutte le attività umane, impresa inclusa.

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