America, ancora e sempre. In questi giorni nei quali Donald Trump si è appena insediato come 45° presidente degli Stati Uniti e tutto il mondo cerca di prevedere le sue mosse, ci rendiamo conto di come – ci piaccia o no – l’America e gli americani esercitano sempre su noi europei una viscerale e ambigua attrazione e repulsione, odio e amore inestricabilmente avvinghiati.
Si colora così di un’inattesa attualità l’opportunità di guardare quel paese com’era un paio di generazioni fa, attraverso gli occhi di un colto, scettico e geniale fotografo che, nel 1955-56, attraversò su una scassata auto tutta l’America, dalla West alla East Coast, con moglie e figlioletto al seguito.
L’occasione è offerta dalla mostra Gli Americani di Robert Frank allo spazio Forma di Milano (fino al 19 febbraio), realizzata in collaborazione con una delle più prestigiose istituzioni europee dedicate alla fotografia, la parigina Maison Européenne de la Photographie (MEP): nelle sale di via Meravigli sono riunite 83 foto – tutte stampe vintage realizzate sotto il controllo diretto dell’autore e da lui firmate –, che costituiscono la serie completa, ormai entrata nel mito.
Frank, svizzero di origine tedesca, risiedeva negli Stati Uniti dal ’47, dove si era affermato come fotografo di moda, ma, ambiziosamente irrequieto, decise presto di abbandonare questa carriera per il reportage: nel 1955 si aggiudicò una borsa di studio della Fondazione Guggenheim (primo europeo a vincerla), che accettò di finanziargli il progetto The Americans. Così noleggia un’auto e si mette in strada, viaggiando per un anno intero attraverso 48 Stati dell’unione: il bottino che ne riporta è impressionante, più di 20.000 fotografie, da cui ne ricaverà un’ottantina. Ma gli editori statunitensi cui le mostra rifiutano di pubblicarle e infatti la prima edizione di Americani esce in Francia nel 1958, dall’editore Delpire, e solo l’anno dopo una piccola casa editrice statunitense (la Grove Press) accetterà di stamparlo !
Quindi, un libro che sarebbe diventato presto una vera pietra miliare nella storia della fotografia moderna non fu inizialmente apprezzato, come mai?
Proviamo a guardare la foto di una giovane commessa di supermercato, persa nei suoi pensieri: siamo sicuri che sia davvero lei la protagonista dello scatto? Se sì, perché non è al centro dell’inquadratura come la buona fotografia di reportage di quegli anni – diretta, bilanciata, immediatamente comunicativa – richiedeva? E poi, guardiamola bene, l’immagine è un po’ sbilenca, dei riflessi disturbano la lettura delle scritte sui cartelli e la vista degli oggetti dietro il vetro delle scaffalature, inoltre la foto non è totalmente a fuoco, l’illuminazione è altalenante. Insomma è un’immagine imperfetta, che dà una sensazione di provvisorietà, indecisione e sospensione: non riusciamo a identificare il vero soggetto, distinguendolo da ciò che è secondario, e non capiamo nemmeno esattamente cosa racconti, è ambigua. Già, è proprio come le situazioni che viviamo tutti i giorni, quasi sempre senza capirci molto. Come la foto del ragazzo biondo col sigaro e cappello da cowboy e le due ragazze more accanto – che si assomigliano: sono sorelle, forse gemelle o nessuna delle due cose? –, tutti intenti a guardare qualcosa fuori campo: un rodeo? Un altro spettacolo? E poi questi tre sono assieme o sono occasionali compagni raggruppati dallo scatto, ma in realtà estranei tra loro?
Robert Frank “lavora direttamente sulla vita, usando la pelle della gente” ha detto splendidamente un altro grande fotografo, Ugo Mulas. Non racconta il sogno americano, la gloria della grande potenza mondiale consacrata dalla guerra vittoriosa; semina domande, inciampi, dubbi; scruta le ombre, le ascolta.
Se guardiamo la foto scelta come copertina del libro, quella di un tram a New Orleans, intuiamo un altro aspetto importante: il tram è come congelato dallo scatto orizzontale, diviso in tre fasce distinte che continuano fuori dall’inquadratura. Difficilmente si potrebbe pensare a una foto più immobile di questa – che raffigura un mezzo di locomozione! – : le immagini di Robert Frank non colgono l’attimo come il reportage classico insegnava, il loro tempo non scorre, ristagna, si ingolfa, risucchiato su se stesso.
Se Cartier Bresson cercava singole foto memorabili, che concentrassero un avvenimento o una situazione o un momento di bellezza irripetibili, Robert Frank si muove come un musicista jazz, interessato a penetrare la crosta delle apparenze e delle abitudini, a divagare, scavando nella banalità del quotidiano per far affiorare sulla superficie delle sue foto sensazioni, odori, suoni, atmosfere, che poi galleggiano sorprendenti sotto i nostri occhi. Può addirittura mostrarci una stanza vuota, colma di silenzio e di attesa: in mostra vedrete una foto con una “sedia in un caffè, col sole che entra dalla finestra e la avvolge di un alone sacro”, come dice Jack Kerouac nella prefazione che scrive per il libro del suo amico fotografo, un libro on the road, come il romanzo capolavoro di Kerouac stesso, un viaggio da beat generation per scoprire territori inesplorati nell’America profonda e sempre misteriosa.
Le inquadrature di Robert Frank hanno cambiato il modo di fotografare, sono sempre a ridosso delle persone e dei luoghi, e costringono noi spettatori a diventare attori, ci fanno entrare nello spazio rappresentato, che non è più uno scenario da osservare a distanza di sicurezza, ma un luogo nostro, da attraversare, come in un’altra foto che potrete gustare dal vivo, “Strada 285, New Mexico”: ancora un’immagine vuota, qui è una strada di cui non si vede la fine – la striscia di asfalto parte direttamente da sotto i nostri piedi, ci stiamo camminando sopra – e si perde, faticosamente illuminata, nella distanza smisurata del continente americano immerso nel buio notturno. Invito al viaggio e al sogno.
“Chi non ama queste immagini, non ama la poesia, capito? Se non ami la poesia, va’ a casa e guarda la TV… Robert Frank… ha estratto una poesia triste dal cuore dell’America e l’ha fissata sulla pellicola, così è entrato a fare parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo.” Parola di Jack Kerouac eh, non mia…