Tra part time e settimana lavorativa corta: flessibiltà prima di tutto

«Hey team, abbiamo deciso che torneremo a essere presenti in ufficio come prima dell’inizio del Covid». Così il ceo di amazon ha annunciato questa settimana a 1,5 milioni di dipendenti del gruppo che l’azienda ha deciso di tornare indietro di 4 anni e che tutti saranno chiamati a lavorare in presenza in ufficio 5 giorni su 5.

Una decisione singolare in un contesto lavorativo mondiale che sta sperimentando sempre più forme di flessibilità, non solo sul luogo di lavoro ma anche sui tempi, con la settimana corta. Come si concilia quindi la scelta del colosso americano con la spinta a uno scardinamento sempre maggiore dei paletti che hanno caratterizzato il mondo del lavoro fino alla pandemia? Spinta che per altro non viene solo dalla GenZ o solo dalle donne, come si potrebbe pensare. La richiesta di una maggiore flessibilità è sempre più generalizzata e per le aziende è diventata un must se vogliono attrarre e trattenere talenti.

Quante ore lavori?

Dalle ultime stime Ocse, con una percentuale del 34,2% i Paesi Bassi si confermano la prima nazione al mondo per numero di occupati che lavorano meno di 30 ore la settimana. A seguire, per quanto molto distanti, Svizzera (con il 23,5%), Australia (22,2%), Germania (21,2%), Giappone (21%) e Regno Unito (20%). Specifiche quote a parte, praticamente ovunque sono le donne ad avere contratti pert time. Altrettanto comune in un po’ tutto il mondo è la giustificazione primaria addotta da chi opta per questo tipo di contratti: avere più tempo da dedicare alle responsabilità di cura di figli piccoli, di familiari malati o genitori anziani.

La realtà del mercato del lavoro è oggi sicuramente più variegata che in passato. La dicotomia tipica, full-time/part time risulta solo una parte dello scenario dell’occupazione in generale. Infatti, oggi per quanto ancora in maniera non prevalente, quando cercano un lavoro molti guardano alle opportunità di impiego a tempo ridotto spinti proprio dal desiderio di benessere, mettendo nell’equazione gli impatti sulla propria salute mentale e guardando con interesse alle possibilità di un migliore equilibrio tra vita personale e professionale. Se poi certo il Covid ha contribuito (o imposto) a sdoganare modalità di lavoro diverse, la preferenza di nuove caratteristiche dell’occupazione è anche in parte attribuibile all’evoluzione demografica stessa della forza lavoro.

Da una parte, tra i giovani aumenta la domanda di autonomia e flessibilità anche a fronte di salari (in parte) ridotti. Dall’altra, popolazioni sempre più anziane e nuclei familiari più ristretti accrescono i bisogni di cura di cui i lavoratori devono farsi carico.

Una recente conferma, arriva da uno studio effettuato in Australia – nazione con uno dei più alti tassi di lavoratori part time tra i Paesi Ocse – sulle tendenze che caratterizzano l’occupazione a “meno ore”. Pubblicato a inizio settembre dall’agenzia governativa per la parità di genere (Workplace Gender Equality Australia), il “WGEA Gender Equity Insight report” segnala come la flessibilità, nel numero, nella scansione dei giorni e nei luoghi di lavoro, sia un orientamento predominante. Indica poi il crescere di contratti sì a tempo pieno, ma che includono specificamente opportunità di lavoro ibrido, ispirati certo dalla la diffusione degli strumenti tecnologici e insieme spinti dalle aspettative dei dipendenti.

Tra le altre caratteristiche e guardando al part time in particolare, il rapporto segnala inoltre l’aumento nel numero di quanti non indicano ragioni di cura come determinanti nella scelta di contratti part time. Sarebbero il 29% le donne e il 31% gli uomini che preferiscono questi contratti per scelta personale (e non per il bisogno di accudire qualcuno).

Le donne e il part time (spesso involontario)

Analisi nazionali a parte, praticamente ovunque sono le donne ad essere impiegate a tempo parziale. Insomma, donne e part time continuano a costituire un binomio molto stretto, quasi indissolubile sembra. Guardando alle cifre della differenza di genere sul totale degli occupati meno ore, sono ancora una volta i Paesi Bassi a primeggiare. Qui sono il 51,5% le lavoratici con contratti sotto le 30 ore settimanali, mentre non arrivano al 20 per certo i lavoratori (18,3%). A seguire, con il secondo divario di questo tipo, la Svizzera dove la percentuale femminile del part time è del 39,3%, del 9,5% quella maschile. Appena sotto, l’Italia dove il 29,2% di lavoratici è a part time contro il 6,7% dei lavoratori.

Per quanto prevalente, però, il genere resta una delle caratteristiche che definisce (e, vedremo, limita) il lavoratore part time tipo. In Europa in particolare, secondo il quadro che ne fa Eige, resta particolarmente marcata la differenza numerica dell’incidenza tra uomini o donne. Ma variano in modo significativo anche le percentuali tra padri e madri e tra donne con o senza figli impiegati con contratti part time. Stando al recente report* dell’agenzia per la parità di genere europea, infatti, se nel 2023 il tasso di occupazione totale delle lavoratrici con un figlio sotto i 6 anni era di 10,5 punti percentuali più basso rispetto a quello delle lavoratici senza figli, l’incidenza del part time raggiungeva il 32% per le madri lavoratrici. Arrivava, invece, al 20% per quelle senza figli**.

A prescindere dalle ore lavorate, inoltre, il 56% delle madri a tutto lo scorso anno spendeva almeno 5 ore al giorno in impegni di cura. Lo faceva il 26% dei padri. E se poi, il 6% di uomini indicavano di lavorare part time spinti da responsabilità di cura infantile o familiare, questa ragione era indicata dal 26% delle occupate. Scrive Eige: «il divario di genere nella cura e le sfide del bilanciare lavoro e responsabilità familiari sono fattori chiave nel declino delle quote di occupazione delle donne con figli. (Scarto che) diventa ancora più rilevante al crescere dei figli di cui (le madri) si devono occupare».

Non è tutto: oltre che in base al genere, l’incidenza del part time varia infatti anche a seconda delle caratteristiche di una coppia. Il divario uomo-donna risulta massimo tra famiglie eterosessuali con almeno un figlio – +26 punti percentuali. Mentre si ferma a +5 punti percentuali nelle coppie eterosessuali senza figli. Senza contare poi che tocca anche direttamente la questione degli stipendi. I padri, solitamente impiegati per un maggior numero di ore, guadagnano di più (anche rispetto ai lavoratori senza figli). Mentre le retribuzioni delle madri. anche proprio a causa di una riduzione di orari, diminuiscono in modo significativo già alla nascita dal primo figlio, per poi restare più basse negli anni successivi e portare a un gap pensionistico di genere del 26%.

Flessibiltà, soprattutto

Oltre la dicotomia part-time/full time, la parola d’ordine oggi sembra essere “flessibiltà”. Se infatti è vero che i contratti a tempo pieno restano di gran lunga i più diffusi, non sono solo i lavoratori a interessarsi di nuove modalità di impiego. Un’indagine del portale di ricerca lavoro Indeed segnalava infatti che in primavera negli Stati Uniti, il 62,3% di tutte le offerte riguardava ruoli a tempo pieno (quota stabile dal 2022), il 31,7% posizioni part-time (cresciuta del 2,5%) e il 12,7% ammetteva entrambe le opzioni. Senza contare poi che, a prescindere dalle specifiche scritte negli annunci, più che in passato le imprese sembrano pronte ad abbracciare e offrire modalità come il “work-sharing” o la settimana lavorativa corta. Possibilità di autonomia di orari e luoghi dove svolgere il lavoro che vengono viste come strumenti per attrarre professionisti. O elementi chiave nella trattenere quelli già assunti.

Un interesse tanto accresciuto rapidamente da portare anche alcuni governi a legiferare in materia. In particolare, stanno ricevendo grande attenzione le potenzialità offerte dai progetti (anche a livello nazionale) di settimana lavorativa “corta”, esemplificate recentemente dai programmi proposti nel Regno Unito. È inoltre notizia recente  la notizia la proposta del governo Stramer di rafforzare il diritto di quei lavoratori con contratti a tempo pieno, di chiedere di lavorare quattro giorni su cinque. Secondo i piani, resterebbe uguale il numero di ore totali, da spalmare però su un giorno in meno la settimana.

Per quanto recente, il progetto inglese non è affatto inedito, ma si allinea a una serie di riforme dell’occupazione che sta attraversando l’Europa e non solo. In Belgio, per esempio, i lavoratori possono già concentrare in dieci ore giornaliere la loro attività e non lavorare un giorno dei cinque. La Spagna dal 2021, punta invece a ridurre il lavoro a 32 ore da spalmare su quattro giorni. In Danimarca, con un totale di 33 ore su cinque giorni, molti preferiscono lavorarne uno in meno e, inoltre, le aziende sono scoraggiate dal richiedere straordinari ai dipendenti (proprio in un’ottica di work-life balance).

* “Return to the labour market after parental leave: a gender analysis”, European Institute for Gender Equality (EIGE), 2024
** I padri che lavorano part time nel 2023 erano il 5%, gli uomini senza figli il 7%.

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