Pigrizia o produttività. Arrendevolezza o determinazione. Fallimento o successo. Dai banchi di scuola ai consigli d’amministrazione siamo stati abituati a categorizzare la realtà che ci circonda – e noi stessi – in due campi. L’appartenenza si gioca su un test.
Se a scuola non impariamo a risolvere le equazioni nelle due settimane previste dal programma, vuol dire che non abbiamo provato abbastanza o che non siamo portati per la materia. Questa selezione è alla base delle nostre gerarchie: i “primi della classe”, quelli “di successo”, diventano le teste di istituzioni e organizzazioni. Il processo sembra essere non solo naturale, ma anche giusto: i più competenti e i più talentuosi sono, teoricamene, più atti a dare direzioni e prendere decisioni.
Le capacità delle “teste di serie” sono generalmente la somma del loro talento e, soprattutto, dei loro sforzi. Quindi le loro responsabilità sono la ricompensa dei loro meriti. Studi dimostrano, infatti, che la pratica ci avvicina indubbiamente alla perfezione. Diecimila ore di esercizio sembrano poter rendere la maggior parte di noi dei quasi professionisti nella competenze allenate, dal suonare il violino al risolvere equazioni. La perseveranza risulta addirittura più determinante del quoziente intellettivo nel raggiungere il successo: sono i più grintosi e disciplinati a prendere il massimo nei test di matematica. Quindi, lavorare sodo paga e diventa una qualità etica e pratica ancora più importante in un’epoca in cui ci aspettiamo che ogni risultato possa essere raggiunto con un click, ogni cambiamento accelerato al costo di un premium.
Quella della gerarchia naturale è, però, una storia incompleta – e inefficiente. Ad esempio, studi provano che il non essere portati per la matematica non è altro che un mito derivante da un cattivo metodo d’insegnamento.[1] Insegnare teoremi ed altri argomenti astratti troppo velocemente impone uno stress eccessivo sulla memoria operativa. In altre parole, la maggior parte di noi memorizza una formula temporaneamente per poi dimenticarla troppo in fretta. Il passo successivo è istituzionalizzare la gerarchia tra “i bravi” e “quelli che rimangono indietro”. Questo non fa altro che aggravare il deficit di apprendimento degli studenti. Così, nel tempo, creiamo una classe di lavoratori rassegnati al non essere portati per una certa materia e, dunque, mal predisposti all’apprendere.
La gerarchia del successo può diventare una tassa sul futuro del lavoro – e dei lavoratori. L’esperienza di essere categorizzati come “lenti” o “poco talentuosi” in tenera età crea stress (non necessario) che può danneggiare le funzioni esecutive del cervello alla base delle competenze che saranno vincenti nel nuovo mondo del lavoro: dalla resilienza alla fiducia nella propria capacità di apprendimento. Un tale fenomeno si può tradurre in costi per le aziende in termini di gestione di personale meno produttivo, meno ritorno sull’investimento in riqualificare i dipendenti e, possibilmente, nuove assunzioni. Per i lavoratori vuol dire maggiore vulnerabilità ai cambiamenti sul posto di lavoro, scarsa motivazione e insoddisfazione.
Sia ben chiaro: questo non è un argomento contro la meritocrazia o il valore del talento. Al contrario, è una proposta per equipaggiare un più ampio bacino di persone con quella che la psicologa americana Carol Dweck chiama growth mindest: la convinzione che applicarsi ed esercitarsi migliori le proprie abilità.
Per realizzare questa visione, tre principi sembrano essere più efficaci della gerarchia: padronanza, autonomia e fine.
La padronanza è l’idea che un metodo di apprendimento che comincia e procede a piccoli passi porta lo studente ad “appropriarsi” del progetto, sollevandolo a livelli di competenza molto sofisticati in un periodo di tempo relativamente breve. Una ricerca sul cervello lo conferma: i bambini imparano la matematica meglio e più velocemente quando un problema come imparare le divisioni viene decifrato in sequenze di passi che vanno dal più al meno semplice. Il principio è paragonabile a quello dei videogiochi: superare un livello dopo l’altro – padroneggiare un passo alla volta, piuttosto che cercare immediatamente di risolvere le divisioni – genera motivazione perché il riscontro è più frequente e più costante. Il successo, dunque, è fatto di piccole vittorie. Lo stesso metodo è ovviamente applicabile a progetti professionali.
La padronanza implica anche che studenti e dipendenti siano “proprietari” del problema da risolvere. Se padroneggiare una competenza dipende dall’impadronirsi di un problema, allora l’autonomia diventa un prerequisito. Un’efficace illustrazione di questo principio me l’ha data recentemente un gruppo di marine americani, introducendomi al commander’s intent. Nelle operazioni militari, il comandante definisce (in maniera dettagliata) l’obiettivo della missione, ne espone i rischi e le costrizioni, ma garantisce un certo grado di autonomia alle sue truppe nel modo di completare il compito.
La ragione dietro al prescrivere un obiettivo ma non il modo per raggiungerlo è semplice: l’imprevedibilità in un campo di battaglia è tale che i soldati devono sentirsi in potere di improvvisare e deviare dal piano originale per ottenere i risultati sperati. Allo stesso modo, chiedere a un bambino di fare 182:7 o a un membro del proprio team di perseguire un progetto non deve corrispondere all’imposizione di un percorso preciso. Concedere autonomia e rispettare un metodo diverso per tagliare un traguardo comune sollecita creatività, senso di responsabilità e motivazione. Se la fiducia di prendere un simile “rischio” esiste sul campo di battaglia, si può avere anche in classe o a lavoro.
Infine, perché prendersi rischi e responsabilità e sforzarsi a coltivare talento, conoscenza e competenze? Il fine – avere una visione chiara dello scopo cui ogni gesto individuale contribuisce – è il principio in grado di far fare a premi Nobel la sfida della dislessia fino al punto di fargli vincere il celebre premio. Il fine è il motore della tenacia e della motivazione e si compone di quattro elementi: senso di appartenenza alla comunità; la convinzione che le abilità crescono con l’esercizio (o growth mindset); l’idea che si possa raggiungere un successo (o “Yes, we can!”); e un lavoro che rifletta (anche parzialmente) i valori personali. Le organizzazioni che pongono sfide nuove, complesse e accessibili sono quelle in cui la motivazione fiorisce.
Le diseguaglianze di successo hanno radici in disparità di motivazione, che non hanno (solo) cause naturali. Organizzazioni, insegnanti e manager che polarizzano le persone ai due estremi di gerarchia creano una classe permanente di sfiduciati, con danni oggettivi sulle capacità di apprendimento – e un’imposta sulla produttività delle nostre istituzioni e sulle possibilità di studenti e lavoratori. Per di più, questo tipo di gerarchie alimenta falsi miti come quello che esistano bambini che non sono portati per la matematica.
Le predisposizioni esistono, ma ad oggi ci imponiamo molte più limitazioni di quanti limiti abbiamo effettivamente. Esprimere il vero potenziale delle persone richiede organizzazioni che alimentino la padronanza, concedano autonomia e invitino a partecipare ad un fine. Il manager del futuro non comunica, coinvolge. Non controlla, conduce.