
«Ora la scena è un po’ cambiata e c’è tanta leadership femminile nelle missioni archeologiche, ma ai tempi eravamo le uniche. Eravamo solo noi». A raccontarlo ad Alley Oop, mentre mostra una foto alla telecamera del pc che la raffigura, negli anni Novanta, unica donna in un gruppo di colleghi uomini, è Carolina Orsini, archeologa e conservatrice delle raccolte archeologiche ed etnografiche del Mudec, nonché responsabile della missione archeologica in Perù di cui l’Università IULM è capofila.
Recentemente insieme al suo team – che vede da tempo nel direttivo anche l’archeologa Elisa Benozzi e l’antropologa Sofia Venturoli – è stata protagonista di una scoperta, che contribuisce in modo significativo all’avanzamento delle conoscenze sulle prime civiltà andine. Sotto la direzione di Orsini, le campagne di scavo nel sito di Tumshukayko, nel nord del Paese, hanno portato a risultati sorprendenti circa nuove analisi e datazioni che rivelano i tratti di una società già organizzata, ingegnosa e culturalmente evoluta, fiorita sulle Ande circa 6.000 anni fa. La sua missione ha inoltre coinvolto le famiglie residenti nel sito di scavo, mettendo in atto un esempio di «archeologia co-progettata» con le comunità locali.
Amore per la storia
L’interesse di Orsini per l’archeologia nasce in famiglia. «Mia mamma era una professoressa universitaria e mia zia è stata è una grande firma del giornalismo scientifico italiano», mentre «mio papà si occupa di speleologia», racconta Orsini. «Sono sempre stata in un ambiente di amore per la storia». A questo, a diciotto anni, si è aggiunto anche quello per l’America Latina. A scatenarlo un viaggio alla fine degli anni Ottanta tra Ecuador – dove c’erano le rovine di Ingapirca – e Colombia con lo zio, un obiettore di coscienza internazionale che in quel periodo stava lavorando sulle Ande. L’esperienza per Orsini – che già aveva iniziato a lavorare come volontaria in degli scavi nel Sud della Spagna – ha segnato una svolta. «Mi sono detta “sto sbagliando tutto. Voglio fare l’archeologa qui!”».
Così, dopo gli studi di lettere classiche all’Università di Bologna – «dove fortuna vuole che ai tempi esistesse l’unico insegnamento di civiltà indigene dell’America focalizzato sull’archeologia», un master alla Scuola Normale di Pisa e il dottorato a Bologna in archeologia, Orsini è approdata in Perù. Il tutto grazie anche all’impulso della professoressa Laura Laurencich Minelli. Era «una donna che non aveva paura di niente – racconta Orsini – Per molti anni aveva fatto archeologia nella tenuta per la coltivazione di caffè della sua famiglia in Costa Rica, dove si spostava guidando in aereo negli Anni Cinquanta». L’alta quota e la fatica per una donna in età avanzata non hanno però consentito a Minelli di continuare ad affiancare Orsini per molto negli scavi. Quel lavoro, «in una valle molto remota sulle Ande Centrali», è stato però il primo di una serie di missioni archeologiche, su mandato del ministero degli Esteri, svolto dall’archeologa e dal suo team tra il Perù e l’Argentina.
Il Perù di Fujimori
Erano gli anni Novanta e il Perù stava affrontando la coda delle azioni di guerriglia di Sendero Luminoso e la dittatura di Alberto Fujimori, «che aveva attuato una campagna di sterilizzazione forzata delle donne. Quindi c’erano tante proteste». Tra i ricordi più vividi, ci sono 24 ore trascorse nel suo secondo anno nel Paese, il 1999, a bordo di un bus fermo per sciopero. «Non avevamo cibo. Non sapevamo dove andare in bagno e chi scendeva dall’autobus veniva preso a sassate». Insomma, «era un periodo dove c’erano diverse sacche criminali legate al narcotraffico e a Sendero. Poi c’erano molti rapimenti, soprattutto di stranieri». A posteriori, «mi rendo conto che ci è andata bene. Non so se a mia figlia farei fare una cosa del genere», scherza l’esperta.

Il ruolo delle donne nella storia
«Dalla comunità archeologica sia peruviana che internazionale» è però arrivato subito «un grande sostegno», anche perché «io ed Elisa (Benozzi, ndr) eravamo le uniche femmine», afferma Orsini. «Era come se già il fatto che io fossi arrivata fin lì e facessi un’archeologia così complicata» e impegnativa a livello fisico «fosse una cosa da rispettare». Inoltre, Elisa «è un’alpinista e una speleologa». Chi faceva parte delle missioni che spesso si tenevano «in altissima montagna», anche sopra i 4.000 metri di altezza, doveva avere una buona resistenza alla vita e ai lavori in quota. Oggi Orsini non è più un unicum in Perù e può contare sul «sostegno di una rete di donne dentro l’Università IULM oltre che Massimo De Giuseppe», professore ordinario di storia contemporanea presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università Iulm.
In più, anche lo scenario generale è cambiato. «C’è un gruppo meraviglioso di professioniste e di giovani studiose sudamericane che adesso racconta molto di più e molto meglio l’archeologia al femminile, anche del passato», comprese «il ruolo delle donne nella storia preispanica che non è stato mai valorizzato in maniera adeguata», spiega la professoressa. «Abbiamo sempre pensato a un mondo preispanico dominato dai maschi, ma forse appariva così perché erano i maschi ad averlo studiato – spiega Orsini – Oggi ci sono tanti studi che dimostrano che c’era una leadership femminile e che forse non l’abbiamo mai studiata bene».
Un’archeologia co-costruita
Orsini e il suo team sono stati in un certo senso pionieri anche nel coinvolgimento e nel rispetto delle istanze delle comunità locali. «È stato un processo di apprendimento graduale, perché all’epoca e non c’era un’educazione post-coloniale – spiega la professoressa – ma abbiamo avuto come maestro un nostro amico, un archeologo peruviano e la sua famiglia», in prima linea nella missione di educare le comunità remote nella loro lingua nativa, il quechua. Grazie al contatto con loro, «ci siamo resi conto che non potevamo avere un atteggiamento da esploratore romantico stile Indiana Jones, che arriva, si prende il reperto». Al contrario, spiega Orsini, «dovevamo co-costruire un sapere assieme alle popolazioni che vivevano nei siti e che sono i veri eredi» del patrimonio archeologico. Infatti, ormai hanno «tutte le skills e gli studi universitari immaginabili» per gestirlo, senza il bisogno di «un apporto straniero».
C’è un momento in particolare che rappresenta il legame di Orsini con le comunità con cui ha vissuto e collaborato. Una domenica, quando «lavoravamo nella Valle di Huari a 4.300 metri, Elisa era in viaggio di nozze ed era passata a trovarci, anche se non partecipava agli scavi – ricorda – L’ho vista arrivare con una coda di gente pazzesca», risalendo sul sentiero. «Poi ci siamo resi conto che era la comunità che veniva a trovarci perché era domenica. Gli abitanti pensavano che noi ci sentissimo un po’ soli là sopra – prosegue – Abbiamo fatto un banchetto in mezzo al sito archeologico» con musica, cibo e fiori. «Ci siamo sentiti molto amati dalla comunità e dalla da questa comunanza di intenti».
Le famiglie di Tumshukayko
Le comunità locali sono state centrali anche nella missione a Tumshukayko. Si tratta di una «cittadina di provincia piuttosto grande, dove nessuno voleva lavorare – spiega Orsini – L’ultima volta che ci hanno provato nel 2003 la popolazione aveva buttato fuori gli archeologi». Nell’area vivono infatti 13 famiglie, «che si sono rifugiate lì dalle grandi alluvioni degli Anni Settanta, perché il sito è sopraelevato». Tuttavia, sono «in una situazione piuttosto difficile», perché «non hanno alcun diritto: per esempio non hanno il diritto alla raccolta della spazzatura, ad avere una fognatura o elettricità e acqua corrente».
Quando Orsini e il suo team si sono presentati a queste famiglie, hanno illustrato loro la filosofia di «un’archeologia co-progettata». «Avremmo deciso assieme cosa fare e li avremmo avuti dentro la squadra – afferma la professoressa – Il vero game-changer è stato però il fatto che gli abbiamo detto: “siamo stranieri, arriviamo con tutta la pomposità di una missione ministeriale del ministero degli Esteri. Quindi tutti gli occhi saranno puntati sul sito. Questa è la vostra occasione per ottenere cose, perché sarete visibili, noi porteremo, faremo diventare visibili i vostri problemi“».
Una convivenza possibile
Il team sta continuando a lavorare agli scavi e al contempo per ottenere un luogo dove le famiglie di Tumshukayko possano spostarsi, visto che gli abitanti «sono i primi a volersene andare perché vogliono una casa degna di questo nome, che possano tramandare i figli come eredità e dove possano avere dei servizi». Intanto, «la convivenza va avanti ed effettuiamo regolarmente un aiuto dal punto di vista dell’igiene, della pulizia del sito, della raccolta della spazzatura, facciamo un lavoro di sensibilizzazione a livello scolastico e poi soprattutto cerchiamo di raccontare ai turisti perché il sito è aperto». Insomma, dice Orsini, «non è una storia di occupazione abusiva del sito, ma una convivenza possibile tra abitanti moderni e rovine».
Oltre che per questa storia di convivenza, il sito di Tumshukayko è prezioso anche dal punto di vista storico. È un «un complesso di templi monumentale che risale al 3500 avanti Cristo. Un’architettura spettacolare costruita senza l’uso della ruota e di animali da soma, che però ci parla di una comunità altamente organizzata. Siti come questi ci forzano a riscrivere il concetto di complessità sociale antica che nella nostra testa associamo tradizionalmente agli stati organizzati con un apparato burocratico, una scrittura formalizzata e una fiorente economia», spiega Orsini. «La preistoria americana rompe i paradigmi: ti costringe a pensare in maniera creativa»..
Il ruolo di IULM
IULM è attiva nella valorizzazione del patrimonio culturale, storico e artistico, ambito nel quale si inserisce anche l’archeologia. In particolare, l’Ateneo si caratterizza per un approccio che integra ricerca scientifica, creatività, internazionalizzazione e comunicazione, trasformando la conoscenza accademica in narrazioni, contenuti e progetti capaci di raggiungere pubblici ampi e diversificati. Il modello adottato da Iulm mette poi al centro il tema dell’inclusività delle comunità locali, come avvenuto nell’esperienza del Museo comunitario di Cupilco (Messico) o del progetto di Caraz (Perù). Questo orientamento è perfettamente coerente con la missione di IULM, da sempre attenta alle intersezioni tra cultura, media e creatività. Elemento centrale di questo ecosistema è ArcheoFrame, il laboratorio di valorizzazione e comunicazione dell’archeologia fondato nel 2007 all’interno dell’Ateneo.
Ideato dal prof. Luca Peyronel (già docente IULM e oggi ordinario alla Statale di Milano), si tratta del primo laboratorio universitario italiano dedicato alla sperimentazione di nuovi linguaggi per raccontare l’archeologia con documentari e prodotti audiovisivi, progetti multimediali, format didattici innovativi e attività museali e strumenti per la divulgazione contemporanea. Oggi il laboratorio è un ponte attivo tra IULM e Università Statale, fornendo competenze tecniche e creative nella comunicazione dei progetti di scavo e nella valorizzazione delle missioni archeologiche. In questo quadro si inserisce il lavoro della professoressa Orsini. Il progetto coordinato dall’Università IULM (che coinvolge anche i centri di ricerca Humanlab e Cultura e scienza della sostenibilità) con il Ministero degli Esteri e il Mudec mette in dialogo l’archeologia con la storia delle comunità della Sierra Ancash, coinvolgendo la popolazione in attività di valorizzazione del sito.
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