Immigrati e lavoro: quale l’impatto sulle economie occidentali?

Le economie occidentali hanno bisogno di immigrati. Da una parte all’altra dell’Atlantico, il contributo dei lavoratori nati fuori confine rafforza l’occupazione e lo sviluppo. Nella sola eurozona, per esempio, secondo le stime del Fondo monetario internazionale (FMI) entro il 2030 il contributo dei lavoratori immigrati  farebbe salire la produzione potenziale dello 0,5%.

Per quanto nel clima attuale spesso la mobilità umana venga presentata come un rischio per gli stati, il fenomeno invece è un motore per la crescita, la resilienza demografica e la coesione culturale. E specialmente, come confermano analisi decennali di dati, proprio per Europa e Stati Uniti. Da inizio secolo elevati flussi di immigrazione nei Paesi ricchi contribuiscono infatti a rafforzare il mercato del lavoro. Solo nel vecchio continente, secondo il report del Fmi sull’impatto dei movimenti in entrata nel blocco, tra il 2019 e il 2023 due terzi dei nuovi lavori erano occupati da immigrati da Paesi terzi.

Scriveva in un suo recente articolo Deniz Torcu, professoressa aggiunta di Globalizzazione, business e media dell’università spagnola Ie, «statistiche smentiscono l’idea che i migranti “rubino il lavoro” (ai residenti). Al contrario, riempiono posti vacanti strutturali che né l’automazione né il mercato interno sono stati in grado di colmare».

Dalle professioni di cura degli anziani, all’assistenza sanitaria, dai lavori nell’agricoltura a quelli nei trasporti, è molto parziale (quando non diventa pericolosa) quella narrativa che racconta solo di un ingresso massivo, incontrollato e rischioso, di non-cittadini da fuori confine. La realtà, lo sappiamo, è molto più sfumata. E come accennavamo, in una prospettiva occupazionale, un gran numero di immigrati più che “sostituirsi”, rubando posti di lavoro ai locali, copre posizioni lasciate scoperte. Specialmente in settori e impieghi fisicamente impegnativi. O in professioni che sempre meno europei e americani svolgono.

I numeri dell’immigrazione

Il contributo specifico dell’immigrazione sulle economie più avanzate è un tema conosciuto e approfondito da anni. Già nel 2016, per esempio, secondo McKinsey seppure i migranti quell’anno rappresentavano il 3,3% della popolazione globale, generavano il 9,4% del Pil mondiale, cioè 6,7% trilioni di dollari. Due trilioni solo negli Stati Uniti.

Più di recente, uno studio* del Fondo monetario internazionale sui flussi umani in entrata nella Ue, stimava che nel periodo 2022-2023, l’immigrazione netta nell’area Euro «aumenterà la produzione potenziale di circa lo 0,5% entro il 2030 – appena al di sotto della metà della crescita di Pil potenziale dell’area euro in questo periodo». E tutto questo, si legge ancora nel documento, anche se «si assume che gli immigrati sono il 20% meno produttivi dei “nativi”».

In un’Europa che invecchia e perde forza lavoro (e contribuenti) per i limiti di età dei lavoratori e dato il mancato bilanciamento demografico, sono proprio certi flussi umani in entrata a rispondere parzialmente alle conseguenti debolezze economiche e occupazionali. Quant0? Sempre secondo i calcoli del Fmi, negli ultimi anni con quasi 2,7 milioni di posti di lavoro occupati da cittadini provenienti da fuori i confini del blocco, l’immigrazione ha soddisfatto una parte significativa della domanda di lavoro nella Ue.

Imprenditori venuti da altrove

Nonostante la carenza di profili per coprire le posizioni aperte (carenza in parte coperta dagli ingressi da Paesi terzi), comunque gli immigrati continuano a non giocare su un campo livellato rispetto ai nativi. I lavoratori nati fuori dai Paesi occidentali, dicevamo, sono in genere impiegati in lavori manuali o fisicamente impegnativi. E soprattutto in determinati settori. Secondo i numeri del Council on foreign relations, per esempio, nel 2022 negli Stati Uniti gli immigrati regolari e cittadini naturalizzati (nati oltre confine, ma che hanno ottenuto la cittadinanza) rappresentavano il 29% degli occupati regolari nelle costruzioni. Il 21% nel settore dell’ospitalità (2,7 milioni di addetti). E il 20% per attività agricole, forestali e nella caccia (quasi 470 mila persone ) e nei trasporti (2 milioni).

Se però questa è una evidenza innegabile, gli immigrati però non contribuiscono solo portando forza umana alle economie più avanzate. Ma stimolano la creazione di imprese. Le stime del World economic forum infatti, indicano che, sempre negli Usa e almeno fino al 2020, i non nativi erano per l’80% più propensi ad aprire una attività in proprio. Inoltre, dalle cifre dell’American immigration council, nel 2023 quasi il 45% delle imprese presenti nell’elenco Fortune 500 erano fondate da persone immigrate o dai loro figli.

A questi numeri, si accompagna anche un importante contributo dei talenti stranieri in tema di innovazione e tecnologia. Oltreoceano una porzione significativa di brevetti depositati presenta infatti almeno un “inventore” immigrato. E dato che l’innovazione va spesso a braccetto con la ricerca universitaria, è importante ricordare come i centri di eccellenza della ricerca statunitensi pullulano di studiosi nati altrove. Questi talenti contribuiscono alla pluralità di idee e offrono una ricchezza di visioni quantomeno favorevole per lo sviluppo di nuovi studi.

Oltreoceano però, proprio nel settore accademico in questi ultimi mesi si sta verificando un fenomeno di migrazione in uscita. Il clima generale nelle università americane, acuito dalla sospensione o cancellazione totale di molti finanziamenti federali alle ricerche in corso, sta portando non pochi studiosi a guardare ai centri di ricerca europei o asiatici. Questa tendenza ha inoltre già portato molti governi e istituti di formazione superiore a offrire proposte spesso molto attraenti per questi talenti in fuga.

Criticità e stipendi

A prescindere dal settore specifico, l’immigrazione non è problema da risolvere. Bensì, riprendendo un commento del WEF, un asset strategico da gestire con intelligenza e umanità. In quest’ottica allora, i governi devono prendere coscienza dei rischi di una sua mancata gestione. Ma anche dei pericoli conseguenti del disinteressarsi delle opportunità che i flussi offrono alla tenuta sociale e allo sviluppo economico.

Tra le varie voci, per esempio, l’Ocse allerta che se nel mercato del lavoro attuale non si coinvolgono maggiormente le donne, i lavoratori più anziani. E, in particolare, gli immigrati, l’aumento del Pil degli Stati potrebbe passare dall’1%, registrato nei primi 20 anni di questo secolo, a un potenziale 0,6% nel 2060. Al contrario, proprio una migliore immigrazione aggiungerebbe invece uno 0,1% alla crescita annuale.

Anche a fronte delle prospettive indicate, comunque, da una parte e dall’altra dall’Atlantico persistono grandi disparità salariali tra chi è nato o meno entro i confini dei due blocchi. Per quanto, come dicevamo, i migranti svolgono spesso professioni che i locals non vogliono più fare, continuano a venire pagati meno anche se coprono posizioni cronicamente a corto di personale.

Quanto meno? Secondo uno studio pubblicato su Nature a fine luglio, negli Stati Uniti e in Europa gli stipendi dei lavoratori immigrati sono il 18% inferiori di quelli di chi è nato in uno dei Paesi considerati. Le due cause principali sarebbero da una parte la difficoltà dei primi ad assicurarsi occupazioni meglio pagate. Stando ai dati, tre quarti di tutti gli immigrati sono impiegati in posizioni con stipendi bassi. Dall’altra, il gap salariale sarebbe attribuibile al persistente divario di retribuzione per la stessa occupazione. Con i lavoratori nativi a risultare, in media, retribuiti meglio di quelli immigrati.

Gli autori della ricerca ritengono inoltre che l’area mondiale di provenienza influenzi la forbice persistente tra stipendi. La differenza più alta tra salari dei locali e degli immigrati si registra infatti tra gli occupati nati nell’Africa sub-sahariana (26,1%). A seguire, quella di chi viene dal Medio Oriente e dal nord Africa (23,7%). Mentre il gap percentuale più basso risulta quello di coloro che sono emigrati da stati europei non membri della Ue, dell’America settentrionale e altre nazioni occidentali. Il divario in questi casi arriva al massimo al 9%.

In questo scenario, una nota parzialmente positiva riguarda le “seconde generazioni”. La ricerca nota infatti che i figli degli immigrati possono godere di prospettive di guadagno migliore dei loro genitori. Dove esistono dati specifici su questi lavoratori** la distanza negli stipendi si riduce nel tempo. E per quanto persista una differenza in difetto per i non nativi, il gap di reddito medio si attesta al 5,7%.


* L’analisi “Migration into the EU: Stocktaking of Recent Developments and Macroeconomic Implications” è stata pubblicata lo scorso settembre. Lo studio analizza i dati a partire dal 2022. Quell’anno il blocco ha conosciuto record storici in entrata a seguito dello scoppio della guerra tra Russia e Ucraina.

** In Canada, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia.

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  • Salvo Carusi |

    Articolo fazioso e sbilanciato a sinistra, dati inventati al sommo scopo di giustificare immigrazione incontrollata. Peccato!

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