La popolazione europea cresce numericamente. Ma, contemporaneamente, invecchia. Tra i problemi di una piramide demografica che si sta ribaltando, si aggiunge il pressante tema dell’assistenza agli anziani.
L’aumento registrato tra il 2023 e il 2024 dagli ultimi dati ufficiali, indica un incremento entro i confini dell’Unione di quasi un milione 700 mila persone. Si tratterebbe però di un andamento sostenuto dall’immigrazione in entrata. Non, quindi, dal numero di nuove nascite che sono, infatti, in declino. La tendenza non è sconosciuta. Ma non viene più compensata sufficientemente nemmeno dl numero di bambini nati da mamme immigrate, quota che fino a qualche anno fa rallentava la caduta dei tassi di natalità di molte aree.
Alle condizioni attuali, secondo le proiezioni di Eurostat, da qui al 2100, la distribuzione demografica della popolazione europea si modificherà al punto da far diminuire in modo significativo i residenti in età lavorativa. Mentre aumenterà la percentuale degli ultra 65enni. I nati a partire da fine anni ‘50, infatti, passeranno dal costituire il 21,6% del totale odierno a rappresentare il 32,5% tra 75 anni.
I problemi della generazione sandwich
Chiarito il contesto generale, il cui andamento è tutt’altro che nuovo, emerge con prepotenza la questione della cura dell’età avanzata. Diffusa su tutto il continente, il tema riguarda da vicino (e incide) sulle vite di milioni di famiglie europee. Chi si occupa o occuperà dei genitori quando i figli adulti non lo possono o potranno fare?
Oltre ai temi economici e quelli della cura quotidiana sanitari, l’invecchiamento della popolazione porta governi e amministrazioni locali a interrogarsi anche sulla gestione più ampia delle necessità specifiche di queste fascia demografica. Tra difficoltà da risolvere delle singole famiglie e programmi istituzionali per ripensare a certe politiche sociali, si alza la cortina sulla preoccupante e crescente carenza di strutture e personale dedicato all’ accudimento degli anziani.
Non è un segreto, ma è bene ricordarlo: data la mancanza di personale e strutture adatte, con l’allungamento delle aspettativa di vita la maggior parte dei carichi di cura delle persone anziane ricade sulle famiglie. Al loro interno, poi, pesa soprattutto sulle spalle delle donne. Una “generazione sandwich”, impegnata a giostrarsi tra figli cresciuti ma ancora non del tutto adulti e indipendenti. E genitori anziani da accudire.
Per quanto l’assistenza resta al momento una questione che si può solo gestire “in famiglia”, rappresentando in certi casi l’unica possibilità (i costi di altre soluzioni sono spesso proibitivi per i più), il settore professionale della cura a lungo termine in prospettiva non può che crescere. Oggi in Europa sono 6,3 milioni gli occupati in questi ambiti. Un numero già sproporzionato al ribasso, dato che sarebbero, infatti, 44 milioni di europei (o, viste le quantità, sarebbe più appropriato dire le europee) che si prendono cura dei propri anziani in modo informale. Quindi, senza stipendio, assicurazioni o protezioni specifiche.
Tra domanda crescente e scarsa offerta
Il gap tra bisogni e offerta resta molto alto. Ed è oggi (per quanto parzialmente) coperta da persone immigrate. A sottolinearlo, indicando qualche numero, un recente studio della no-profit Rand, secondo i cui dati infatti, il 10% degli operatori sanitari attivi sarebbero nati fuori dai confini nazionali. Alcuni provengono dell’Unione europea, il 20% sono sudamericani, il 12% sono originari di un Paese africano e nel 10% dei casi arrivano dall’Asia.
Nel coprire occupazioni che pochi dei lavoratori locali vogliono o possono svolgere, queste figure in molti casi hanno condizioni e trattamenti lavorativi scadenti. Alcuni sono evidentemente sfruttati o non svolgono attività dichiarate. Tra quelli assunti, poi, una parte ha contratti temporanei e tanti sono pagati meno dei loro colleghi europei.
Proprio il tema economico, tra contratti e condizioni lavorative anche molto differenti tra loro, mostra il persistere di una grande varietà di situazioni tra stato e stato all’interno dell’Unione. Se infatti la carenza di personale è comune a tutto il continente, appare particolarmente marcata nei Paesi del sud-Europa. Destinazioni rese meno attrattive per lavoratori emigranti da condizioni di lavoro più difficili. Altro contrasto netto, gli stipendi. Nei Paesi Bassi, per esempio, chi lavora in ambito di cura a lungo termine è pagato il 96% della retribuzione media oraria nazionale. In Bulgaria, all’opposto, questa percentuale arriva appena al 62%.
Percezioni contrastanti
Data la scarsità di personale e di strutture, non potendo sostenere i costi di centri privati o accedere ai programmi nazionali, in molti casi comunque non adeguatamente finanziati, molti ricorrono a forme di assistenza domiciliare non regolata. Spesso svolte da persone immigrate.
A livello comunitario, un passo per modificare la situazione è rappresentato dal pacchetto introdotto dalla Commissione europea nel 2022, che mira al miglioramento sia delle condizioni che del processo di immigrazione legale di lavoratori nei settori con alte carenze di personale. Di questo piano fa parte anche una piattaforma digitale per mettere in contatto i datori di lavoro con professionisti qualificati fuori dai confini della Ue. Questo progetto in marzo ha incassato il supporto da parte della commissione per le libertà civili del Parlamento europeo. Si dovrebbe da qui aprire la strada per un nuovo approccio (legale e strutturato) alle assunzioni internazionali.
L’anti-immigrazione
Se da una parte si sta avviando quindi un processo su scala europea per facilitare un migliore e più tutelato ingresso da fuori Europa di figure che possano coprire posizioni vacanti in diversi settori, dall’altra però stanno aumentando un po’ ovunque sentimenti anti-immigrazione tra la popolazione.
Si leggeva qualche settimana fa sul portale The Conversation, in tema di cura dell’età avanzata: «Gli europei vogliono che i loro parenti anziani abbiano assistenza di qualità. Ma non sono propensi ad accettare che (assumere) lavoratori stranieri sia una delle strade per farlo. Questa tensione tra attitudine pubblica e realtà economica mette a rischio il futuro dell’assistenza a lungo termine in Europa. La ricerca mostra che i millennials europei (i nati tra il 1982 e il 1991)» sono più contrari all’immigrazione rispetto alla generazione dei loro genitori, quelli nati tra il ‘52 e il ‘61. Se è vero che l’UE riconosce il bisogno di lavoratori stranieri, continuano le autrici del pezzo, «Le attitudini pubbliche verso l’immigrazione restano profondamente divise, con preferenza spesso data a chi proviene da altri stati europei o dall’Ucraina».
Certo non si può pensare di risolvere le gravi carenze, che già pesano soprattutto sulle singole famiglie, semplicemente assumendo più personale che arrivi da fuori i confini del blocco. Cruciale diventa il ripensare a molti aspetti che vanno dalla formazione, al reclutamento e a migliori tutele lavorative sia per chi vive in Europa che per i lavoratori immigrati.
Il caso svedese
Un caso emblematico per meglio descrivere la situazione continentale è rappresentato dalla situazione in Svezia. Modello per il suo livello di protezione sociale e un esempio per i generosi piani offerti ai neo genitori, anche nel Paese nordico la tendenza segue una linea discendente. Con tassi di fertilità in calo da anni.
Nascono sempre meno figli per madre. La popolazione invecchia e la bilancia demografica non viene più livellata nemmeno dalle mamme immigrate. Al contempo, cresce la sensazione di una imminente crisi occupazionale che, per quanto non sconosciuta, sta esplodendo. Inoltre, se da un lat, manca il personale di assistenza per gli anziani, dall’altro, all’opposto dello spettro, gli asili – gratuiti – chiudono per mancanza di bambini, segno di una natalità in declino costante di cui si vedono e vedranno presto gli effetti.
In dieci anni, a partire dal 2013, in Svezia la crescita della popolazione in età lavorativa era rappresentata per la tua totalità da persone nate fuori dai confini nazionali. Immigrati che hanno contribuito sostanzialmente all’aumento della natalità. Oggi, però, è calato significativamente il numero sia delle persone nate oltre i confini svedesi che dei richiedenti asilo e le domande di permesso di lavoro. Insomma, quei profili che negli anni hanno rappresentato un gruppo consistente della popolazione attiva nel mercato del lavoro locale. In particolare anche nei settori della cura agli anziani. Come riportato dal Nordic Labour Journal: il 35% degli assistenti infermieri, circa la metà del personale di cura e il 40% dei dottori in Svezia, infatti sono nati all’estero.
Molti comuni si stanno trovano di fronte il problema della scarsità di professionisti della cura dell’età avanzata, con tutte le necessità collegate che aumentano. Stando alle proiezioni, infatti, da qui al 2033 in Svezia salirà del 60% il numero di ultra 85enni. Che fare? Oltre al reclutamento di nuovo personale, reso però difficile dalla mancanza stessa di profili, uno degli interventi possibili sarebbe quello di favorire un passaggio da contratti part-time (un terzo dei lavoratori nel settore della salute degli anziani lavora una media di 29 ore la settimana) a full-time. Offrendo allo stesso tempo, migliori condizioni di lavoro a chi è già impiegato. E garantendo maggior training specifico.
Un’altra via, da attuare parallelamente, sarebbe rappresentata dal “rinforzo” del ruolo dei manager, che si trovano spesso ad affrontare alti tassi di assenza per malattia, in moti casi causata, tra le altre cose, da una scarsa attenzione al benessere del personale stesso.
«Gli stipendi sono importanti – si legge ancora sul Nordic Labour Journal – per la scelta delle professioni e dei datori di lavoro. Ma ci sono altri fattori importanti (che incidono sulle scelte) come lo sviluppo delle competenze e le opportunità di carriera».
Lavori dignitosi, riconoscimento delle competenze, sicurezza professionale e l’offerta di un lavoro dignitoso, con condizioni professionali adeguate. La sfida sarà rendere questi elementi solidi per attrarre nuovi lavoratori. Specialmente tra i giovani. Molti di questi ultimi infatti,, oltre alle retribuzioni, sono attratti dalla possibilità di fare la differenza con il loro impegno. E mostrano interesse per occupazioni che possono definire come “significative” (meaningful).
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