
È morto a 81 anni Sebastiao Salgado (Aimorés, Brasile 8 febbraio 1944 – Parigi, 23 maggio 2025), il più grande fotografo del mondo. Ed è un po’ come fosse morta la fotografia, a tal punto Salgado ha rappresentato, senza ombra di dubbio, il più alto risultato della fotografia di reportage e di arte della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo. Una fotografia nata e cresciuta su pellicola, che ha saputo rimanere al passo con il travolgente ritmo dell’evoluzione tecnologica nel passaggio dall’analogico al digitale, salvaguardando la fedeltà assoluta al decalogo morale del fotoreportage: “Sono prima di tutto un giornalista e un fotoreporter. Vorrei quindi che le persone guardassero alle mie foto non come oggetti d’arte, ma come una sorta di veicolo di realtà lontane che ho avuto modo di toccare con mano. Le mie fotografie hanno il compito di influenzare e provocare la discussione nella società in cui vivo, di stimolare il confronto delle idee.”
Su questa posizione etica di Salgado si fonda il patto alla base del fotogiornalismo: essere presenti a quel che accade e testimoniarlo attraverso le immagini senza contraffazioni o deformazioni, garantendo così la veridicità dell’esperienza di quel che è stato visto e, perciò, può e deve essere raccontato. Il che, ovviamente, non equivale a “mostrare la verità”: nessun fotografo serio, che riflette sul proprio lavoro e sui limiti, propri e della fotografia stessa, può avere questa pretesa ingenua, men che meno Salgado: “La fotografia è molto più del semplice scattare foto: è uno stile di vita. È quello che senti, quello che vuoi esprimere, è la tua ideologia e la tua etica. È un linguaggio che ti permette di cavalcare l’onda della storia.”
I primi anni e il trasferimento in Europa
Salgado non nacque fotografo: si formò come economista, dopo la laurea a San Paolo iniziò a lavorare al Ministero delle Finanze (1968-69) e si legò a correnti di sinistra, che cercavano di sfuggire alle rigide maglie imposte alla società brasiliana dal regime militare, finendo così per essere costretto a rifugiarsi a Parigi (1969), dove si trasferì con l’amatissima moglie Lélia Deluiz Wanick (sposata nel 1967).
In Europa lavorò all’Organizzazione Mondiale del Caffè, occupandosi di progetti nei paesi in via di sviluppo, ma ben presto, contagiato dall’esempio di Lélia, architetta di formazione, prese a poco a poco confidenza con la macchina fotografica, fino a maturare una vera conversione: nel 1973 abbandonò un lavoro sicuro, rivoluzionò la propria vita e divenne fotografo professionista, iniziando da freelance globetrotter, continuamente in viaggio nei molteplici sud del mondo che aveva imparato a conoscere da economista. Il primo reportage è sulla drammatica siccità del Sahel, cui seguirà un’inchiesta sulle condizioni di lavoro degli immigrati in Europa: fin da subito le sue immagini ferme e maestose, dalla serrata messa a fuoco e il bianco e nero contrastato e scultoreo non lasciano indifferenti, la sua voce potente e trascinante gli vale la chiamata (1974) alla prestigiosa agenzia fotografica francese Sygma e, l’anno successivo, il passaggio all’altrettanto celebre Gamma.
Fotografia come ricerca e impegno

Per Salgado la fotografia è impegno: nel 1975 racconta la rivoluzione dei garofani in Portogallo e le connesse guerre di liberazione dal colonialismo in Angola e Mozambico, poi la sua attenzione è catturata dall’America Latina, il vasto continente del natio Brasile, che attraversa in lungo e in largo in numerosi viaggi tra il 1977 e il 1984. Nel 1979 diventa membro dell’agenzia Magnum e, nel 1986, pubblica Altre Americhe, il suo primo libro, fondamentale per capire la sua idea di fotografia come ricerca. Come racconta nel libro autobiografico Dalla mia Terra alla Terra (Contrasto 2021): “mi interessa lavorare a fondo intorno a un problema per cinque o sei anni, non ho voglia di svolazzare da un argomento all’altro, da un posto all’altro.”
Non è un segugio da scoop, né un cacciatore di isolate foto da copertina, la fotografia è per lui uno strumento di indagine e di conoscenza sul lungo periodo: a monte di ogni viaggio c’è un progetto attentamente preparato, l’individuazione di un argomento, la scelta di dove recarsi, come approfondirlo procedendo per tappe successive, mettendolo progressivamente a fuoco e correggendo ove necessario il tiro, in base alle risposte dalla dura realtà.
Dalla metà degli anni ’70 i progetti di Salgado lo portano infatti in luoghi remoti e impervi, su cui l’attenzione dei media è debole o del tutto assente, perché la sua scelta da che parte stare è netta, con i dannati della terra di cui scrisse l’antropologo Frantz Fanon: “Le mie foto hanno un messaggio preciso, raccontano le storie della parte più nascosta della società.”
Le sue foto compaiono sulle riviste e giornali più prestigiosi in tutto il mondo, ma la maggior parte dei progetti sono condotti in collaborazione con agenzie intergovernative e onlus, dall’ONU all’Unicef, da Medici senza Frontiere all’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, e trovano compimento nella pubblicazione di ampi volumi fotografici, tra cui numerose pietre miliari della storia della fotografia. I suoi libri disegnano affreschi ampi e sfaccettati, affrontando temi capitali del nostro tempo: la persistenza delle culture contadine e indiane in Sud America in Altre Americhe (1996); la grandiosa inchiesta, condotta in 26 paesi, sul lavoro manuale e artigianale ne La mano dell’uomo (1993, Workers), per testimoniare la nobiltà di antichissime pratiche prima che vengano completamente cancellate dalla meccanizzazione industriale; il dramma dei contadini brasiliani, messi in ginocchio dalla nuova organizzazione economica e costretti a emigrare in massa verso le città, dove li attende un destino di privazioni e miseria in Terra (1997), aperto da un memorabile testo di José Saramago.
Dall’uomo al mondo

Con Terra siamo già in un’altra epoca: nel 1994 Salgado affronta una nuova sfida, lascia la Magnum e crea la propria agenzia fotografica, Amazonas Images, per avere maggiore libertà di dedicarsi anima e corpo ai propri progetti, come il grandioso Exodus (2000; in Italia In cammino), realizzato tra il 1993 e il 1999 in 35 paesi, fotografando uomini, donne e bambini in fuga da guerre, povertà, disastri ambientali e cambiamenti climatici. Il contatto pluriennale con scenari atroci di sofferenza lascia questa volta il segno in Salgado, il suo corpo non regge e si ammala, decide allora di tornare a casa, in Brasile nell’azienda agricola di suo padre: la disillusione è atroce, il territorio un tempo florido e verdeggiante è un’irriconoscibile landa disboscata.
Ed ecco una nuova svolta nella vita di Sebastião e Lélia, coppia indomita e coraggiosa che decide di buttarsi in un’avventura che sembrava assolutamente folle: come il protagonista del racconto di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, decidono: “ripianteremo tutto.” È il 1998, nasce l’Instituto Terra con l’obiettivo di riportare nella natia valle del Rio Doce (stato di Minas Gerais) la perduta foresta della fascia atlantica brasiliana. L’obiettivo è stato raggiunto, sono stati piantati 2 milioni di alberi e le foto che mostrano come, in dieci anni, il manto forestale si sia ricostituito sono stupefacenti e commoventi.
Ci sarebbero ancora molte cose da dire: dal film documentario su di lui Il sale della terra di Wim Wenders, realizzato in collaborazione con il figlio Juliano Ribeiro Salgado, all’impressionante messe di premi e riconoscimenti che ne hanno accompagnato la carriera, ma è meglio lasciarci con le sue parole: “La mia fotografia […] non è una professione. È la mia vita. Adoro la fotografia, adoro fotografare […] adoro vivere con la gente, osservare”
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