«Un impegno collettivo, volto a raccontare il mondo attraverso la fotografia» è il compito che il Festival della Fotografia Etica onora da 15 anni, portando a Lodi alcuni dei migliori reportages del panorama internazionale, visibili per tutti i weekend di ottobre fino al 27.
Immagini potenti e precise, accompagnate da didascalie accurate: è l’essenza del fotogiornalismo, vocabolo oggi poco frequentato, ma che permette di comprendere la forza che l’immagine fotografica ha tuttora di entrare nelle pieghe della realtà e illuminarne gli angoli più nascosti, aiutandoci a capire il mondo straordinariamente complesso e intrecciato nel quale viviamo. Essere consapevoli, non poter dire “non lo sapevo”, ecco in due parole il sugo dell’aggettivo etica che questa manifestazione ha scelto per il proprio nome.
Storie dal mondo
Il volto impassibile di Jimmy “barbecue” Chérizier, l’ex ufficiale di polizia di Tahiti leader della più potente banda armata dell’isola, la G9, circondato dai suoi fedeli incappucciati che brandiscono fucili mitragliatori, ci osserva con aria di sfida dalle immagini limpide di Giles Clarke, fotografo di Getty Images premiato con il Master Award per Tahiti in subbuglio, un reportage d’inchiesta che descrive con ritmo serrato e accuratezza giornalistica le condizioni del paese e della sua martoriata popolazione, colpita dal devastante terremoto del 2010, poi da ripetuti uragani e ora, dal 2021, da una guerra civile di fronte alla quale il governo impotente ha chiesto il soccorso della comunità internazionale.
Siamo nel centrale Palazzo Barni, nella sezione “A World Report Award”, dove la temperatura estetica ed emotiva delle storie tocca probabilmente i valori più alti: ci confrontiamo con lo spettro della crisi climatica nel servizio del tedesco Ingmar Björn Nolting, che mette in scena lo scontro, nel cuore della civilissima Germania, fra gli attivisti della protesta climatica e la dura realtà dell’industria estrattiva del carbone a cielo aperto in Renania.
Le foto di Nolting sono naturalmente digitali, cioè scattate con una fotocamera digitale, il che significa semplicemente che la luce non impressiona una pellicola resa sensibile chimicamente come nella fotografia detta (con parola infelice) analogica, ma si imprime su un sensore ottico che genera impulsi digitali (binari): cambia il metodo di impressione, ma l’impronta che il mondo lascia sull’immagine fotografica è esattamente la stessa. E lo vediamo e percepiamo a pelle nelle bellissime, malinconiche fotografie di Nolting, dalla inconfondibile luminosità perlacea della terra tedesca, intrisa nell’umido delle grandi foreste renane e del mare del Nord.
La forza della fotografia è legata da un cordone ombelicale alla luce di un momento e di un luogo unici e irripetibili, come negli Altri campi di battaglia di cui narra la francese Laetitia Vançon: la foto dei giovani ucraini appena diplomati, che organizzano una performance di danza in costume davanti ai sacchi di sabbia disposti attorno al teatro di Odessa, per celebrare la gioia del traguardo raggiunto in un tempo in cui i festeggiamenti vengono negati dalla guerra, è un’immagine difficile da dimenticare, dipinta dai toni pastello della luce trasparente e soffice dell’est.
Si imprimono nella memoria anche le immagini forti, a tratti crude, della polacca Kasia Strek in Il prezzo di una scelta, un reportage coraggioso sull’aborto, frutto di un lavoro di diversi anni in vari paesi, dalle Filippine all’Egitto, dagli Stati Uniti alla Polonia, rendendo visibile la preoccupante tendenza di diversi governi a rendere sempre più difficile l’accesso in questo ambito delle donne a cure mediche sicure, nonostante l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) testimoni come il 13% dei decessi su scala mondiale sia tuttora dovuto a un aborto non sicuro.
Spiriti danzanti di Camilla Richetti documenta, con un bianco e nero scultoreo e contrastato, scene di vita quotidiana e comunitaria della comunità indigena Bayaka, che tenacemente difende la foresta in cui vive dalle minacce della pressione edilizia e della fiorente industria turistica attorno ai grandi parchi naturali del Congo, continuando a condurre l’antica vita dei cacciatori e raccoglitori preistorici. Anche Francesco Comello usa il bianco e nero in Oshevensk (villaggio a 900 km da Mosca), ai confini del tempo: è una vita antica, in armonia con la natura, quella che ci svelano queste fotografie di grande raffinatezza, nelle quali i riflessi dei vetri e delle acque, le nebbie e i vapori creano un’incantata atmosfera di sogno, proiettandoci nel cuore di un’intatta Grande Madre Russia, estratta come per magia da un romanzo di Tolstoj.
Una bella novità che ci regala infine palazzo Barni è Vittorio Sella maestro della fotografia in alta montagna (1859-1943), una selezione di immagini dagli splendidi archivi della Fondazione Sella. La famiglia Sella ha coltivato l’alpinismo e la fotografia: il padre di Vittorio scrisse uno dei primi manuali di tecnica fotografica, mentre lo zio Quintino, statista e ministro, fondò il CAI (Club Alpino Italiano) nel 1863, così Vittorio riunisce le due passioni, documentando numerose spedizioni sulle Alpi, sui massicci del Caucaso e sulla catena dell’Everest. Sono immagini magnifiche e sorprendenti: il confronto con la natura selvaggia assume ai nostri occhi una dimensione davvero epica, come la foto in cui Sella attraversa un ponte di liane sospeso su un fiume ribollente, che pare tratta di peso da un Indiana Jones.
Le vite degli altri
A palazzo Modignani la sezione “Le Vite degli altri” ci fa entrare in contatto con alcune comunità di cui per lo più ignoriamo l’esistenza o le giudichiamo basandoci su comodi stereotipi. La fotografa americana Terra Fondriest ci racconta La vita nell’altopiano dell’Ozark in Arkansas: dal 2011 vi si è trasferita con la numerosa famiglia e lì, da autodidatta, ha iniziato a usare la fotografia per documentare una nuova vita, scandita dai tempi dell’agricoltura e dell’allevamento degli animali, intimamente connessa con il territorio e i ritmi naturali.
Il bisogno imperioso di natura è all’origine anche delle vite de Gli ultimi nomadi, raccontati da un’altra fotografa autodidatta, l’ungherese residente nel Regno Unito Eszter Halas. C’è un velo di malinconia nella luce umbratile delle Midlands inglesi delle sue foto, attraversate dalla consapevolezza che la vita nomade delle comunità Rom, Viaggianti e dei cosiddetti “New Age Travellers” che, come il marito di Eszter, hanno scelto questa vita per sfuggire alla gabbia della società moderna, vede progressivamente ridursi i propri spazi, assediata da leggi sempre più restrittive. Elegia di un mondo che sembra destinato a scomparire.
L’acqua è un atto di fede di Andrea Agostini rinuncia a ogni didascalia e si affida alla sola forza evocativa di immagini silenziose e poetiche, in cui si riflette il rapporto sacrale che le genti del Mozambico hanno con l’acqua, dono sacro, fonte di vita ma anche di morte, dopo le disastrose alluvioni che hanno colpito il paese africano.
È invece una storia dolorosa di riappropriazione di memorie famigliari quella che racconta con Il linguaggio delle ossa il messicano Musuk Nolte, impegnato dal 2011 a documentare la restituzione delle spoglie alle famiglie delle vittime di una ventennale guerra civile con cui i terroristi di Sendero Luminoso insanguinarono il Perù dal 1980 al 2000, causando la morte di oltre 65.000 persone e 15.000 dispersi.
Altre storie, altri sguardi
Ci sono diversi altri lavori che meritano di essere visti, ma su cui non posso soffermarmi, a cominciare dallo spazio “World Report Award” dedicato alle foto singole, presso la Banca Centropadana, dove incontriamo la foto scelta come immagine del festival, del polacco Patryk Jaracz: tre bambine ucraine corrono sorridenti in un prato. Una festosa scena di giochi d’infanzia, se non fosse per la colonna di fumo nero che si alza da alcune case alle loro spalle: la presenza incombente della guerra che sporca il cielo sopra di loro.
Nei giardini (spazio Outdoor) di via IV novembre l’americana Robin Schwartz racconta il legame profondo che si instaura fra le volpi e i volontari di “Save a fox”, struttura che accoglie le volpi ferite o scartate dagli allevamenti di pellicce, fondata in Minnesota dalla giovane studentessa di veterinaria Mikayla, mentre nel suggestivo ambiente della Cavallerizza (Spazio Environment) è allestita una selezione di incantevoli immagini naturalistiche tratte da “La natura della speranza”. Si tratta di una campagna nata dalla collaborazione tra Vital Impacts, l’organizzazione no-profit fondata dalla celebre fotografa Ami Vitale (che intervistai tempo fa) e la giornalista Eileen Mignoni, e il Jane Goodall Institute, fondato dalla grande attivista ed etologa inglese Jane Goodall (1934), i cui studi pionieristici “hanno trasformato per sempre la nostra comprensione del rapporto tra esseri umani e regno animale”. Preziose ed emozionanti le foto degli anni ’90 dello storico compagno d’avventure della Goddall, Michael “Nick” Nichols, che mostrano Jane e i suoi scimpanzé.
Nel cortile del palazzo della Provincia (sezione “Uno sguardo sul mondo”) vediamo La guerra a Gaza attraverso gli occhi dei suoi fotogiornalisti: l’OCHA (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) ha chiesto a 13 reporter palestinesi di raccontare dall’interno il conflitto riesploso con una drammatica escalation di violenza dopo il 7 ottobre 2023, la tragica data dell’attacco di Hamas in territorio israeliano. Possiamo prendere a emblema di questi reportage in presa diretta un’istantanea di Mohammed Al-Zaanoun: tra quel poco che resta del quartiere di Rimal a Gaza emergono i piedi di una bambina sepolta dalle macerie. A causa del divieto di accesso alla striscia di Gaza ai giornalisti stranieri indipendenti, i fotoreporter locali diventano una fonte indispensabile per capire quel che sta accadendo: le loro non sono immagini di distaccati testimoni, ma di abitanti del territorio, sovente feriti nel corpo, colpiti negli affetti, esposti continuamente al rischio, ma impegnati a documentare una violenza che sembra non avere fine.
Per chiudere, solo un cenno alle storie dello “Spazio ONG” nel quattrocentesco chiostro dell’Ospedale Maggiore: si va dalla pizzeria gestita da ragazzi autistici (Pizzaut di Leonello Bertolucci) grazie alla testarda passione di Nino Acampora, padre di uno di loro, a A-Dios di Marcos Azulay, dedicato a un hospice per il fine vita, da Spezzare il ciclo della povertà di Brian Hodges sulle attività imprenditoriali avviate dalle donne africane ad Africa Blues, progetto di Giulia Piermartiri ed Edoardo Delille sul Mozambico, “vittima perfetta del riscaldamento globale”.
Anche quest’anno Lodi ospita poi una selezione dell’oscar del fotogiornalismo mondiale, il World Press Photo 2023 presso la Sala Bipielle, a testimoniare la reputazione che il Festival ha saputo conquistarsi in questi anni.
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