Trasmissioni televisive che derubricano la violenza maschile contro le donne in semplice conflitto; forme di vittimizzazione secondaria che fioccano nonostante la maggiore attenzione da parte della società; e un substrato culturale duro a morire, tra la difficoltà di declinare al femminile cariche tradizionalmente maschili, formazione ancora insufficiente e scuola che veicola ancora stereotipi di genere laddove dovrebbe gettare le basi del cambiamento culturale. Stigmatizzando in egual misura la violenza esercitata da maschi e da femmine.
E’ un faccia a faccia a tutto tondo sui temi della violenza sulle donne e della sua rappresentazione mediatica quello di Alley-Oop Il Sole 24 Ore con Elisa Giomi, commissaria Agcom, sociologa, autrice di ‘Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale’ e del più recente ‘Male and female. Violence in polular media’. Una chiacchierata che nasce dall’ultima decisione di Agcom di richiamare l’emittente Rti per i casi di ‘Forum’ e ‘C’è posta per te’.
Commissaria Giomi, lei ha giudicato troppo blanda la reazione dell’Agcom per i due casi tv, come mai?
Nel caso di ‘C’è posta per te’ si parlava di una relazione segnata da abusi e maltrattamenti, narrati dalla conduttrice con descrizione di episodi pesanti ma rappresentandoli come la storia di un matrimonio finito per colpa di un tradimento di lei. E’ molto importante, invece, capire che il nome che diamo alle cose condiziona la percezione del pubblico e guida l’interpretazione dei fatti; rappresentare in questa maniera una sequenza di maltrattamenti significa trasformare un abuso in una storia di amore che, per quanto conflittuale, tende a trovare una sintesi. Un fatto significativo, soprattutto se consideriamo che trasmissioni di questo tipo sono per tantissime donne una delle poche finestre che hanno sulla realtà. Minimizzare un abuso può anche ostacolare il percorso di fuoriuscita dalla violenza che le donne vorrebbero intraprendere.
Nel caso di ‘Forum’ si trattava di un racconto di aggressioni rappresentate come reazioni all’ atteggiamento di lei, in uno schema consueto di rivittimizzazione della donna e dell’attribuzione della responsabilità dell’abuso a colei che lo subisce. Ancora una volta, derubricando la violenza in ordinario conflitto o reciproco maltrattamento, perdendo di vista il fatto che invece c’è una persona che agisce violenza e una che la subisce.
Quale sarebbe stata secondo lei la reazione che l’Agcom avrebbe dovuto intraprendere per stigmatizzare questi casi?
Dal mio punto di vista avremmo potuto usare un altro percorso, applicando la delibera contro l’hate speech che avrebbe consentito di intervenire con una diffida, un atto più forte rispetto al richiamo, e che costituisce un presupposto più netto qualora la fattispecie venisse reiterata.
E’ da dire, e qui posso parlare per il collegio, che il consiglio dell’Agcom non guarda a tutti questi strumenti come punitivi. Lo strumento regolatorio e il presidio sanzionatorio, indipendentemente dall’intensità, servono a prescrivere, a dare indicazioni sui principi e i criteri da rispettare. L’auspicio è quello di non arrivare mai a comminare sanzioni, ma, di fronte a una rappresentazione tossica, abbiamo il dovere di dare messaggi netti.
Oggi si parla tanto di rivittimizzazione secondaria, attraverso corsi di formazione, convegni, dibattiti: com’è possibile trovarsi ancora di fronte a violazioni delle regole di un racconto corretto e imparziale della violenza?
Me lo sono chiesto tante volte e, a guardare il bicchiere mezzo pieno, penso che in realtà il cambiamento ci sia, molto più profondo e graduale di quanto non ci sembri. Credo che se guardassimo al nostro periodo storico in un’ottica più ampia, il cambiamento ci sembrerebbe più pronunciato. Per fare un esempio, quando ho iniziato a occuparmi della rappresentazione della violenza maschile delle donne attraverso i media, in occasione del mio primo articolo pubblicato per una rivista prestigiosa, l’illuminato direttore, che pure aveva fortemente voluto questo tema, fece un’unica osservazione: ‘si potrebbe togliere questa parola femminicidio che non si capisce proprio?’
Nonostante ci trovassimo in un contesto di grande apertura mentale, il termine femminicidio non rimandava a nessuna fattispecie conosciuta. Adesso le cose sono cambiate e sono molti i contesti in cui si trova chi conosce questa parola e la spiega correttamente come ‘uccisione di una donna in quanto donna’, non solo tra gli addetti ai lavori. Il termine è completamente sdoganato e rimanda a una realtà ben precisa. Richiamare la realtà è il primo gesto teorico e politico per dare dignità al fenomeno e tirarlo fuori dal sommerso.
Come, secondo lei, parlando da esperta o studiosa, si potrebbe evitare a monte che i programmi tv trasferiscano al telespettatore narrazioni tossiche?
Bisogna partire dalla constatazione che c’è una grossa parte della narrazione fuorviante che avviene in tv, e non tutti i programmi televisivi che affrontano questo tema sono programmi di approfondimento giornalistico che coinvolgono maestranze di una categoria più sensibile e formata. Spessissimo il grosso delle rappresentazioni tossiche passa attraverso i contenitori pomeridiani, il factual entertainment su cui non ci può essere un intervento dell’Ordine dei giornalisti e che gode anche di una percezione collettiva di minore impatto rispetto a quanto prodotto dalla categoria del giornalismo che è il genere principe nella formazione dell’opinione pubblica. E’, tuttavia, vero il contrario. L’intrattenimento ‘factual’, in particolare, porta in scena storie vere riprodotte con attori, con un effetto di realtà, di modellizzazione, di formazione, ancora più pronunciato rispetto a quanto avviene nella fiction.
L’unica soluzione dunque è fare formazione, a tutti i livelli, ricomprendendo anche i pubblicitari. Pur se ci sono tante iniziative lodevoli in quest’ultimo campo ci troviamo ancora di fronte alla trasformazione di scene di violenza in spettacolo godibile e spesso con sfumature erotiche. La cosa più sorprendente è che tutto ciò interessa generi merceologici rivolti alle donne, dai gioielli ai cosmetici. In conclusione, la formazione va fatta per tutte le categorie professionali coinvolte nella filiera produttiva mediale e in tutti i comparti. D’altronde, la maggior parte delle rappresentazioni tossiche nascono da mancanza di consapevolezza, non da malizia.
Tornando alla vittimizzazione secondaria di donne già vittima di violenza, si registra comunque il fenomeno positivo dell’attenzione sui temi della violenza mostrata da aziende, multinazionali, università
Penso che un fattore positivo in questo senso sia la crescente femminilizzazione di alcuni settori. La violenza contro le donne la operano gli uomini, ma le conseguenze sono subite dalle donne. Il problema viene vissuto come un problema femminile. Laddove aumentano le donne, soprattutto in posizioni apicali, aumenta il numero di persone che nel proprio vissuto hanno incorporato forme di violenze, sono sensibilizzate al tema e diventano parte attiva nel contrasto del fenomeno e nella messa in campo di iniziative concrete.
La violenza, in generale, è peraltro un fenomeno più maschile che femminile che si esercita tanto contro gli uomini quanto contro le donne, perché la violenza è vista come forma di risoluzione del conflitto, di espressione delle emozioni, di gestione del potere. Al maschile è più legittimata che al femminile. L’opera di contrasto, dunque, riavvolgendo il nastro, va iniziata a scuola.
Occorre dunque anche formare i formatori?
Sì, anche le donne spesso introiettano lo stereotipo e lo schema della propria svalutazione. Siamo le prime, a volte, a percepire come una deminutio di autorevolezza e competenza la femminilizzazione della professione stessa. Istintivamente si tende ad attribuire una maggiore autorevolezza all’uomo.
Settori un tempo tradizionalmente prestigiosi e tutti maschili, nel momento in cui subiscono una femminilizzazione, perdono di prestigio e di remunerazione economica, e quindi diventano accessibili alle donne: penso al farmacista del paese, al maestro, ora anche al giornalista.
Nel mondo della scuola, il paradosso è che ci troviamo di fronte a istituzioni scolastiche con personale interamente femminile. C’è, quindi, un bias nel paesaggio formativo di bambini e bambine che non hanno occasioni di confrontarsi con una figura maschile preposta a un compito delicatissimo come la gestione dell’emozioni di un individuo. E’ un modello di ruolo estremamente sbilanciato. Si sta, in questo modo, dicendo che l’insegnamento, che è anche cura, è un tipo di mestiere tipicamente femminile. Il bambino che dovesse avere interesse per il suo futuro nella formazione e crescita di altri bambini si troverebbe scoraggiato.
Di vittimizzazione, violenza, abbiamo già detto che si parla tanto, ma spesso con parterre tutto al femminile, tra le relatrici e le partecipanti. Non sarebbe il caso di coinvolgere di più gli uomini in queste battaglie?
Perché dovrebbero appassionarti a un tema che per loro non è un problema, un’urgenza, un elemento di disagio? Sul tema della violenza ho riflettuto tanto, gli uomini non vivono quello della violenza come un problema perché la società e la cultura, da quando sono nati, hanno sempre mandato loro lo stesso messaggio: se l’uomo commette violenza non incorre nella stessa stigmatizzazione in cui incorre una donna. Anzi, ci sono casi in cui, se vuole dimostrare di essere uomo e non ‘una femminuccia’ deve usare violenza.
A scuola, se una bambina prende un compagno di classe e tira i capelli con la frequenza con cui la fanno i maschietti viene registrata come un caso ‘borderline’. Se lo fa un maschietto si attenziona il caso, ma ci sono tolleranza e parametri diversi. Tutto questo lavora dentro il bambino. Rispetto a certi comportamenti c’è sempre lo stigma dell’adulto, ma il bambino vede che la maestra non reagisce con la stessa forza quando ad agire è una bambina. Nel fenomeno c’è una parte di natura e c’è una parte di cultura, e su questa possiamo intervenire.
Durante la nostra chiacchierata ha spesso posto l’accento sull’importanza di dare il nome ai fenomeni, in un più ampio discorso di parità di genere ritiene importante la questione della lingua e la declinazione al femminile delle cariche?
La questione della lingua è uno specchio, perché coloro che vorrebbero liquidare la battaglia contro l’uso del maschile universale neutro e per la declinazione al femminile, almeno secondo grammatica, come una battaglia di second’ordine si raccontano una bugia. Lo strumento per screditare questa campagna si basa sulle motivazioni che quella sulla lingua è una battaglia minoritaria, i problemi sono altri, come il gender pay gap o la scarsa rappresentanza politica. Se veramente la questione linguistica non fosse importante, però, queste stesse persone lascerebbero correre; invece quando si utilizza il femminile laddove si è sempre usato il maschile si assiste a una levata di scudi.
Ci sono anche tante donne che rifiutano il femminile
Sono donne che hanno introiettato la loro svalutazione, la svalutazione della categoria. Le stesse persone che dicono che si debba dire ingegnere e non ingegnera non hanno poi problemi a dire infermiera e non infermiere. Oppure usano segretaria quando si indica una funzione tecnica e sottosegretario per la carica politica. C’è l’idea che femminilizzare quella che è una carica tradizionalmente maschile significhi marcare una differenza indebita, laddove invece il genere non c’entra nulla. La verità è che si vergognano, ed è un peccato perché potrebbero invece rappresentare un esempio importante per le nuove generazioni. Se parlo a una bambina nominando sempre ‘il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio’ , lei visualizza un uomo. Per lei quelle cariche saranno sempre associate a un’impronta maschile, rendendole più difficile proiettarsi in quei ruoli.
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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