“Mi sembra di camminare sulle uova” mi ha detto non molto tempo fa una persona, mentre parlavamo dei percorsi di formazione aziendali per l’empowerment e la leadership femminile. Io come al solito sono partita con la mia arringa:
“Non esiste una leadership di genere. I percorsi di empowerment femminile potenziano l’idea per cui le donne non sono sufficientemente potenziate e quindi devono essere portate al livello degli uomini”.
“Shata, capisco il tuo punto. Ma mi sembra di camminare sulle uova, qualsiasi cosa dico sbaglio…”
Sono disposta a mettere la mia mano sul fuoco nel dire che la sensazione di camminare sulle uova, quando si parla di diversità e inclusione, l’abbiamo sperimentata tutti almeno una volta nella vita.
C’è contraddizione tra libertà di parola e inclusione?
Inclusione significa normare in modo rigido e strutturato (lasciando fuori chi non è inclusivo) oppure favorire la libertà assoluta?
E alla fine di questa camminata del supplizio tra albumi, tuorli e gusci, la domanda maestra “Quanto è inclusivo essere inclusivi?”. Al di là delle semplificazioni da bar e delle risposte che ci fanno comodo, la verità è che questa non è una domanda semplice. È un bel dilemma.
Quanto è inclusivo essere inclusivi?
Il modo accademico si è interrogato su questo punto, proprio come noi comuni mortali. E si è dato una risposta: un contesto è inclusivo quando è sufficientemente stabile da tenere la sua forma, ma allo stesso tempo sufficientemente malleabile da favorire il cambiamento in funzione di chi man mano arriva. Belle parole per un esperimento in laboratorio, un po’ meno sincere per la complessità della vita reale.
Nel mondo degli umani non c’è spazio per le zone grigie come ci suggerisce la ricerca. Abbiamo bisogno di regole, strutture, responsabilità, logiche. Abbiamo bisogno di identità precise e evidenti. Nel mondo degli umani, mentre camminiamo sulle uova, non c’è spazio per 50 sfumature di inclusione.
Bernardo Ferdman, dopo un dottorato a Yale e una Cattedra in Psicologia delle organizzazioni si è posto le stesse domande che ci poniamo noi, comuni mortali:
Per essere inclusivi dobbiamo trattare tutti
allo stesso modo?
Dobbiamo allinearci allo stesso modo di pensare
oppure promuovere completa libertà?
Dobbiamo raggruppare le persone per identità oppure mixarle? L’inclusione è una macedonia o un frullato?
E da qui, 50 sfumature di inclusione sono diventati tre paradossi più qualche soluzione.
Paradosso 1: sentirci simili oppure sentirci diversi?
Come promuovere appartenenza e unità in modo da garantire inclusione in un gruppo di persone diverse? Come assicurarsi che queste differenze possano coesistere e aggiungere valore al gruppo?
Succede all’ultimo arrivato in ufficio, alle donne in ambienti solitamente abitati da uomini. Succede ai papà in mezzo a un gruppo di mamme, oppure a un musulmano in mezzo ai cattolici.
L’appartenenza succede quando ci aspettiamo riconoscenza da chi è in minoranza, per il solo fatto che abbiamo concesso loro il privilegio di accedere al nostro gruppo. Oppure quando evitiamo di esporre un’idea perché poco conforme all’opinione pubblica. L’unicità avviene quando non vogliamo in alcun modo conformarci alle regole del sistema.
Il dilemma si muove così: mi dicono che “siamo tutti uguali” oppure mi dicono che “siamo tutti diversi”. Ma come possiamo essere simili e diversi contemporaneamente?
Andare oltre il paradosso: Essere insieme simili e diversi
Accettare intanto che appartenenza e distintività portano con sé una connessione intima. Se pensiamo agli ambienti in cui ci sentiamo davvero inclusi, succede che ci sentiamo a casa perché siamo liberi di essere chi siamo.
Costruire poi un racconto sfaccettato dell’identità collettiva che possa valere per tutti, pur riconoscendo e affrontando storie, esigenze e aspirazioni specifiche. Significa evitare gli stereotipi e l’eccessiva generalizzazione. L’identità condivisa non può e non deve essere definita da una singola componente o caratteristica. In questo senso, dobbiamo soprattutto evitare di creare un’immagine dell’insieme fondata su un solo sottogruppo, come spesso accade quando storicamente un sottogruppo è stato dominante in un determinato contesto.
Paradosso 2: norme rigide o flessibili?
Cosa ci tiene insieme? Cosa definisce chi siamo e chi non siamo? Quante sono flessibili o rigide le nostre norme?
“Da oggi in poi basta con il maschile sovra-esteso” è un esempio di norma che genera reazioni diametralmente opposte.
L’inclusione delle norme rigide risponde “finalmente una regola ferrea in grado di valorizzazione la rappresentazione delle donne”. L’inclusione dei confini aperti commenta “non è inclusivo obbligarmi a parlare in un certo modo”.
La verità sta nel mezzo, anche se forse questa idea non ci piace. Certo, la norma rigida va a discapito del privilegio e forse i privilegiati dovrebbero farsene una ragione. Ma se vogliamo costruire qualcosa che funzioni per tutti questa risposta non è soddisfacente.
Come definire il nostro perimetro di inclusione senza perdere i vantaggi dell’espansione e della sfida, adattando le norme alle nuove persone che entrano nel gruppo?
Andare oltre il paradosso: darsi delle regole precise e saperle ridiscutere
Immaginiamo un nuovo arrivato in un una squadra che gioca insieme da 15 anni. È importante che le regole del team siano chiare per chi arriva ma che ci sia spazio per una ridefinizione.
Inclusione, infatti, non significa assenza di regole né tantomeno la messa in discussione di qualsiasi norma. I contesti inclusivi hanno modalità strutturate e chiare per definire dei limiti, ma lasciano lo spazio per espandere ciò che c’è e incorporare nuove idee. Non sono caotici o anarchici.
Nei contesti inclusivi sono tutti responsabili del mantenimento e dell’adozione delle regole. Ci sono anche delle regole per infrangere le regole. La regola numero uno è dissentire, saper stare nel conflitto. C’è un sistema di valori condiviso, ma è promossa e richiesta la divergenza. C’è continuità ma si da spazio ai nuovi arrivati per aggiungere a quelle regole un pezzo delle proprie.
Paradosso 3: al sicuro o a disagio?
Come sperimentiamo, bilanciamo e gestiamo la tensione tra discomfort della differenza e la creazione di un ambiente sicuro e inclusivo?
“Inclusione è sentirsi tutti a proprio agio, sentirsi tutti a casa” dice l’inclusione al sicuro.
“Inclusione è quando sono fuori dalla mia zona di comfort perché mi metto in discussione tutti i giorni” commenta l’inclusione nel disagio.
È vero, la diversità ci obbliga a farci delle domande profonde e metterci in discussione. Ma è anche vero che ci sentiamo inclusi quando siamo a nostro agio. Come possiamo essere a nostro agio nel discomfort?
Andare oltre il paradosso: la forza dirompente del disaccordo
Il comfort è importante ma, ce lo dicono da sempre, ha dei limiti. E vale anche quando parliamo di inclusione.
Il problema è che il discomfort nell’inclusione avviene nel disaccordo. E non siamo allenati né al disaccordo né al conflitto.
E invece coloro che non ci capiscono e che noi non capiamo sono importanti per la nostra crescita personale e collettiva. Il cambiamento avviene proprio quando siamo in grado di ascoltare chi la pensa diversamente da noi, perché è li che dimostriamo una fiducia umana nella saggezza degli altri. Promuovere e accettare il disaccordo, nella misura di migliorare e perfezionare il sistema.
Quando ho iniziato il dottorato pensavo che avrei cambiato il corso della ricerca sull’inclusione in Italia, e forse è l’ambizione di ogni dottoranda. Ci è voluto poco per capire che non sarebbe stato così. Se nessuno aveva ancora trovato la pozione magica, forse era perché la pozione non esiste. E la soluzione non potevo di certo essere io.
Nel mondo delle uova, non esistono soluzioni semplici. Ma questioni complesse che attivano, in chi ha il coraggio di leggerle, nuove buone domande.
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